Una grazia contro lo Stato di diritto
Cinque anni di reclusione, che, non solo non ha scontato neanche un giorno di carcere, ma non ha mai manifestato alcun rammarico per il reato di sequestro di persona da lui commesso in dispregio delle leggi penali.
Sia ben chiaro: il potere di concedere la grazia è una prerogativa che la Costituzione assegna al Presidente della Repubblica senza sottoporlo ad alcun altro vincolo che non sia il suo prudente apprezzamento.
La concessione della grazia, anche se normalmente è ascrivibile a motivazioni umanitarie o all’apprezzamento per il ravvedimento dimostrato dal condannato, può essere anche dettata da una ragione di Stato collegata ad esigenze di natura internazionale (per esempio la liberazione anticipata di coloro che sono stati condannati per spionaggio per ristabilire buoni rapporti con il paese d’origine).
Quello che non è accettabile è che il potere di concedere la grazia venga esercitato come estrema ratio, dopo aver cercato in tutti i modi di sbarrare la strada al controllo di legalità esercitato in modo indipendente dall’autorità giudiziaria, cioè l’esercizio della grazia contro la giustizia.
Dal comunicato emesso dal Quirinale traspare in modo evidente l’irritazione per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di un alto ufficiale della Nato e si dà notizia di un inusitato D.P.R. con il quale è stato modificato un decreto del 2 dicembre 1956, portante il regolamento relativo all’applicazione dell’articolo VII della Convenzione di Londra del 1951 che regola lo status delle Forze Armate dei paesi membri della Nato. Questo decreto, in pratica, stabilisce che, su richiesta degli americani, il ministro della Giustizia può rinunziare alla giurisdizione italiana «in ogni stato e grado del procedimento fino al passaggio in giudicato della sentenza». In pratica, con questo decreto, la giurisdizione italiana sventola bandiera bianca nei confronti dei reati comuni commessi dai militari della Nato di stanza in Italia ed è singolare che un atto di così grave rilevanza politica sia stato deliberato l’8 marzo 2013 dal consiglio dei ministri di un governo in carica per l’ordinaria amministrazione.
Il comunicato del Quirinale lascia intendere che, se questo provvidenziale decreto fosse stato approvato prima, il governo italiano avrebbe certamente rinunciato alla giurisdizione italiana e salvato il soldato Romano dalle grinfie della magistratura italiana. Del resto l’insofferenza del governo italiano, che ha cercato in tutti i modi di sbarrare la strada all’autorità giudiziaria per i procedimenti penali avviati a seguito del sequestro di Abu Omar, è certificata da ben sei conflitti di attribuzione sollevati nei confronti di autorità giudiziarie varie, da ultimo contro la Cassazione, alimentati dall’uso strumentale del segreto di Stato, apposto persino sulla confessioni di alcuni imputati.
Ora di questa insofferenza si dà anche una spiegazione teorica nell’ultimo rigo del comunicato del Quirinale: «Negli ambienti della Presidenza si osserva che la decisione è ispirata allo stesso principio che l’Italia, sul piano della giurisdizione, cerca di far valere per i due marò in India».
Adesso sappiamo che, se il governo italiano sconfessa la giurisdizione, lo fa per rivendicare un principio, quello dell’immunità degli agenti organi di uno Stato che commettano crimini nel territorio di un altro Stato. Insomma l’orizzonte dello Stato di diritto si deve restringere e cedere il passo alle convenienze della politica internazionale.
Forse a queste fini menti giuridiche sfugge che lo Statuto della Corte penale internazionale, all’art. 7, include fra i crimini contro l’umanità la «sparizione forzata di persone» ed esclude che i responsabili possano invocare qualsiasi forma di immunità .
In definitiva la grazia al colonnello Romano è stata usata come un grimaldello per aprire un’altra breccia nello Stato di diritto: non possiamo che esserne fieri.
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