by Sergio Segio | 13 Aprile 2013 8:04
Quando nell’aprile del 2008, al tramonto del governo Prodi, consegnammo presso l’Accademia dei Lincei nelle mani del “ministro di maggio” Scotti (succeduto a Mastella che aveva istituito la Commissione) il Disegno di Legge Delega che tentava una definizione giuridicamente solida di «beni comuni», non avremmo mai potuto immaginare l’evolversi della situazione economica e l’ importanza che il nostro lavoro politico avrebbe assunto nell’offrire una via d’uscita dalla follia neoliberale.
Quella definizione, in gran parte ancora da riempire di senso – «Beni le cui utilità sono funzionali all’esercizio di diritti fondamentali della persona e che vanno gestite anche nell’interesse delle generazioni future» – è divenuta infatti il collante di tutte le più importanti lotte volte ad invertire la rotta rispetto a ricette neoliberali che, insieme al patrimonio pubblico, stanno svendendo la stessa dignità e sovranità del popolo italiano.
È stata proprio l’indignazione per l’ipocrisia di un Parlamento di nominati che nel novembre del 2009 al Senato incardinava il disegno di Legge Delega della Commissione Rodotà – mentre nello stesso giorno alla Camera votava la fiducia al Decreto Ronchi-Fitto che imponeva la privatizzazione di acqua e servizi pubblici – a produrre i referendum sull’acqua bene comune (a redigere i quesiti fu proprio l’ Ufficio di presidenza della Commissione ora riconvocata al Valle nonché due dei suoi componenti, i colleghi Lucarelli e Nivarra).
Ed è stata la vera e propria deflagrazione politica e culturale della nozione di beni comuni adottata dalla Commissione a “ridurre ad unità ” esperienze fra loro diverse, ma accomunate dallo stesso anelito di contrasto alle riforme neo-liberali, dal Teatro Valle Occupato (con la fondazione Teatro Valle Bene Comune) alla Val Susa (No Tav bene Comune) alla complessa esperienza di ABC Napoli e dell’Assessorato ai Beni Comuni, fino alle innumerevoli altre esperienze che in tutto il Paese hanno imbastito in nome dei beni comuni una rete politicamente sofisticatissima, realizzatasi in atteggiamento critico nei confronti di un modello di rappresentanza parlamentare largamente incostituzionale (è di ieri il monito del Presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo).
Anche sul piano tecnico-giuridico la definizione di beni comuni della Legge Delega ha acquisito rilevanza giurisprudenziale al massimo livello (Corte di Cassazione e Corte Costituzionale) e la dottrina giuridica più avveduta da anni ne discute. Al di là di quanto già fatto, c’è moltissimo lavoro da svolgere a livello sia politico che giuridico per costruire le basi di un’alternativa di sistema seria, uscendo dalla crisi tramite il ripensamento di un settore pubblico autorevole, trasparente e partecipato, capace di difendere davvero i beni comuni proprio perché esso stesso un bene comune. Questo grande progetto deve saper raccogliere l’intelligenza collettiva prodotta dal paese in questi anni di lotte esacerbate dalla crisi e metterla in bella copia giuridica. Al Valle inizia un cammino di produzione legislativa, inedito ed itinerante, che consolida un’ alleanza forte e costruttiva fra i movimenti sociali più creativi e significativi e una parte importante e militante dell’ accademia. Questo cammino è consapevole che l’Italia dei beni comuni, capace di risorgere e di diventare buona pratica a livello globale, non può sorgere soltanto dalla triste prudenza dei riti di un Parlamento soffocato dalla forma e ancora largamente composto da nominati.
La rinascita costituente dei beni comuni deve necessariamente produrre un sollevamento dal basso, che diviene costituente se capace di produrre norme legittime, che sapranno imporsi nei prossimi mesi con la forza della ragione e non con la brutale ragione della forza. Noi che in comune al Teatro Valle troviamo triste la prudenza in una crisi in cui non c’è più tempo, abbiamo deciso di fare come se il Parlamento fosse stato in grado in questi cinque anni di far passare la Legge Delega della Commissione Rodotà . Se ciò fosse stato fatto, tanti disastri economici sarebbero stati evitati (in primis tutte le nuove privatizzazioni a prezzo di realizzo) e l’Italia sarebbe un luogo ben più democratico perché si sarebbe aperto un dibattito serio, all’indomani dei referendum, circa il miglior modo di percorrere la via indicata dal popolo sovrano. Ma così non è stato ed è per questo che ci siamo autoconvocati, in uno scenario politico drammaticamente mutato, per produrre in comune l’articolato normativo indispensabile per difendere i beni comuni e creare le basi giuridiche per un’ Italia dei beni comuni. Se le istituzioni della democrazia rappresentativa vorranno ascoltare il popolo sovrano i nostri lavori sono a loro disposizione.
Decideremo su quali temi lavorare nella costruzione di questo articolato dei beni comuni. Io proporrò di normare i seguenti: il territorio con la grande questione della rendita fondiaria, degli spazi abbandonati e del ripudio delle opere faraoniche inutili e dannose; la cultura, non solo gli spazi di condivisione e di creatività che ha nella rete dei teatri occupati la sua epifania più importante ma anche beni culturali, televisione, informazione, scuola, università ; i servizi pubblici, acqua, trasporti, rifiuti e la questione del loro finanziamento pubblico; e infine la rete internet, per renderla davvero bene comune, un mezzo e non un fine in sé, una declinazione avanzata del concetto di accesso.
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