Un vangelo secondo Don Chisciotte
«C hi racconta il Don Chisciotte? Con garbo, ironia, buffoneria, menzogna, verità — scrive Pietro Citati proprio all’inizio del suo Il Don Chisciotte (Mondadori) — Miguel de Cervantes gira attorno a questo tema; e più insiste e gioca, più la risposta diventa segreta e misteriosa». Se la letteratura è anche gioco, mistificazione, specchio e interrogazione di se stessa, questo romanzo famosissimo nel quale avrebbero certamente sognato di entrare da coautori e protagonisti (non con un piccolo racconto) Borges e Pessoa, inventando altri nomi, altre finzioni, è uno dei romanzi più letterariamente complessi, doppi, «specchiati», veri, finti, della letteratura moderna — essendo stato scritto a cavallo fra la fine del sedicesimo e l’inizio del diciassettesimo secolo. E giustamente Citati parte da lì.
Le vicende del futuro Don Chisciotte, racconta Cervantes, dovevano essere ben note, vive nella memoria degli abitanti e custodite negli archivi della Mancia, racconta Citati (come in una pagina di Bernhard), ma a un certo punto, troppo presto, solo per consentire a Cervantes di arrivare all’ottavo capitolo del suo romanzo (con l’hidalgo e il «valoroso biscaglino» impegnati a darsele con le spade di santa ragione), sia la memoria che le carte degli archivi si fermavano come dinnanzi a un vuoto. Era possibile mai? No. Un giorno, Cervantes — che non era un sedentario e quanto a vita tumultuosa poteva stare alla pari di Caravaggio — si trovava a Toledo, quando vide un ragazzo che vendeva degli scartafacci. Uno di questi era scritto in arabo. Cervantes, curioso, chiamò un morisco, un musulmano convertito al Cattolicesimo, e gli chiese di leggerne un foglio. Il ragazzo lesse e si mise a ridere. Perché rideva? Per una nota in cui stava scritto: «Questa Dulcinea del Toboso, tante volte menzionata in questa storia, dicono che non ci fosse in tutta la Mancia una donna che avesse una mano migliore per salare i porci». Al nome di Dulcinea — la dama che Don Chisciotte non aveva probabilmente mai visto, e alla quale aveva dedicato il suo amore assoluto — Cervantes ebbe un sussulto: quel manoscritto sbrindellato evidentemente conteneva la storia «scomparsa» di Don Chisciotte. Infatti si intitolava: Storia di Don Chisciotte della Mancia, scritta da Cide Hamete Bengeli, storico arabo. Il vuoto era riempito. E Cervantes, traducendo e interpretando il testo dello storico arabo — fitto di storie che si intrecciano e storie secondarie, storie che scompaiono e riappaiono come un fiume carsico — ne profittò a piene mani. Ma questo è nulla. L’hidalgo — sappiamo da Cervantes — era già di per sé un personaggio letterario: la sua misera vita nel paese della Mancia di cui non conosciamo il nome (nessun parente, una governante, per amici il barbiere e il curato), aveva l’immenso sfogo della lettura. Come Madame Bovary (che Citati ricorda con squisita raffinatezza a proposito di una vita scialba) leggeva da ragazza i romanzi d’amore, Don Chisciotte leggeva i libri di cavalleria. Con tanto gusto e tanta passione da farsene offuscare la mente. Fino a decidere di partire, diventare Cavaliere, e ripetere le gesta del Cid Ruiz Dàaz, del Cavaliere dell’Ardente Spada, di Rinaldo di Montalbano.
Dunque — vediamo — l’hidalgo parte, si fa ordinare cavaliere da un misero locandiere scambiato per il proprietario di un castello, e trasforma la sua vita in un romanzo, nel quale la Cavalleria ormai estinta rinnova i suoi gesti eroici, e nostalgici. A costo di giganteschi inganni: quali quelli di scambiare per eserciti un gregge di pecore, per giganti dei mulini a vento. Suscitando, insieme, la pietà e il riso.
Ma non è finita. Perché — racconta Cervantes — nonostante sia brevissimo il periodo in cui l’hidalgo innamorato e assetato d’imprese (diventato nel mentre il Cavaliere dalla Triste Figura) e il suo scudiero Sancio Panza percorrono sul cavallo Ronzinante e sull’asino bigio le torride strade spagnole che non molti anni prima aveva percorso l’indomita Teresa d’Avila per fondare anche minuscoli conventi carmelitani, le loro avventure sono già diventate oggetto di un romanzo intitolato L’ingegnoso Hidalgo don Quijote de la Mancha, che moltissimi (per esempio il Duca e la Duchessa, personaggi di una lunga parte del romanzo di Cervantes dedicata alle più infami burle) hanno letto. Il Cavaliere dalla Triste Figura non si stupisce. Siamo, ora, quasi al culmine del prodigioso gioco letterario (quasi, perché ancora un imitatore deve entrare in partita). Ma qui sarà bene riaffidarsi alle parole di Pietro Citati. Che, conoscendo l’arte della sintesi, così spiega: «In realtà , Don Chisciotte comprende benissimo il meccanismo della sua opera. È stato un grande lettore di romanzi di cavalleria, e la sua vita è divenuta il riflesso dei libri che ha letto. Ora lui, il lettore-creatore, è diventato il personaggio che conosciamo in un libro che gli è dedicato… egli deve essere fedele al libro che è realmente diventato, proteggendolo dagli errori, dai rifacimenti, dai seguiti apocrifi». Quale meravigliosa magia. Una magia che supera le infinite magie, gli infiniti incantesimi che leggiamo nel romanzo. Una magia sovrana: quella di un romanzo che produce e legge se stesso.
Pietro Citati ricostruendo la complessa architettura del Don Chisciotte, inevitabilmente racconta il Don Chisciotte: toccando gli episodi salienti, descrivendo i personaggi fondamentali, le anime più esposte e quelle più segrete. Il suo libro è preciso, aereo e profondo. Introduce il lettore alla malinconia e al riso, alla interminabile declinazione della passione amorosa, all’enigma perenne del doppio. E restituisce momenti di straordinaria vitalità , in quelle campagne, in quei paesini spagnoli del Seicento. Persino il sapore e il gusto del cibo e del bere restituisce: come nel pranzo all’aperto con i pellegrini che divorano e spolpano tutto e, a un tratto, levano in alto gli otri del vino, li tirano quasi per aria, come in certi quadri folli di Goya. Resta da dire che in un romanzo non cristiano, che rifiuta qualunque definizione, Don Chisciotte muore pronunciando le parole di Cristo sulla croce: il Cavaliere dalla Triste Figura ha attirato su di sé tutte le possibilità di incantesimo, tutte le falsità , tutto il ridicolo e il malinconico del mondo, invoca Dio e muore. Pietro Citati, nel suo libro, non dimentica nessuna delle citazioni evangeliche che qua e là affiorano nel romanzo di Cervantes. Questa intuizione, con la quale le riannoda e conclude il racconto della vita di Don Chisciotte e del romanzo di Cervantes, è la sua intuizione più inattesa e più bella.
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