Un potere ormai brevettato

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Sugli effetti della sentenza ha già  scritto un intervento Nicoletta Dentico («il manifesto», 3/4/2013), che ha sottolineato come la sconfitta di Big Pharma apre la strada ad analoghe iniziative da parte di altri paesi. Strada tuttavia iniziata dal Sudafrica per i farmaci anti-aids e continuata dal Brasile su altre medicine salva-vita.
Sono questi tre paesi, assieme alla Cina, che hanno con forza chiesto una modifica dei trattati internazionali sulla proprietà  intellettuale. Ogni volta si è vista all’opera una inedita alleanza tra i movimenti sociali e governi nazionali dai primi contestati per le loro politiche sociali e economiche. Non è la prima volta che tale convergenza parallela si manifesta. L’aspetto che invece è rimasto in ombra attiene al mutamento nei rapporti di forza globali. Con la sentenza della Corte Suprema indiana, infatti, diventa evidente lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale non dall’asse atlantico (Europa e Stati Uniti) non verso il Pacifico (i legami tra Giappone, Cina e West Coast statunitense), bensì proprio in Asia.
La Cina, come anche l’India, sono ormai potenze economiche, che aspirano a veder riconosciuto l’equivalente politico del loro potere. È inutile ricordare che Pechino ha avviato quinquennali programmi che puntano a trasformare la world factory in una società  della conoscenza (e dell’armonia, aggiunge il partito comunista), così come è noto che l’India non solo ha sviluppato un importante settore industriale, ma sta diventando, facilitata da un diffuso uso dell’inglese, un nodo «pesante» nella produzione di innovazione tecnologica grazie alla presenza di molte imprese high-tech.
Il governo indiano sta seguendo, come il vicino cinese, politiche economiche «neoliberiste». L’avversione verso le norme internazionali sulla proprietà  intellettuale non nasce quindi dall’adesione alle denunce contro la biopirateria delle multinazionali farmaceutiche e del settore agro-alimentare, che hanno brevettato conoscenze sviluppate nel corso di millenni da parte dei contadini indiani. Nel governo a New Dehli non siedono neppure entusiasti del software open source. Più realisticamente, nel Congresso indiano è prevalsa una scelta che punta a contestare le norme sulla proprietà  intellettuale in nome dell’industria nazionale.
Da anni le società  farmaceutiche indiane si sono infatti caratterizzate per dinamismo competitività  rispetto le loro (avversate, al momento) sorelle svizzere, tedesche, statunitensi. Siamo ovviamente nella fase aurorale di un industria nazionale. Sono cioè brave a «copiare», a riprodurre, ma il governo indiano sta favorendo una maggiore integrazione tra università  e centri di ricerca privasti al fine da facilitare vere e proprie «invenzioni».
In altri termini, quello che emerge in India, e in misura maggiore in Cina, è uno scenario che vi è visto già  in passato proprio nel Nord del pianeta. Nella fase ascendente dello sviluppo di un settore produttivo, i governi hanno una politica di laissez faire sulla proprietà  intellettuale, riducendo al minimo il controllo sul rispetto di leggi su brevetti e copyright. Ma una volta che tali settori sono sviluppati, diventano i più intransigenti difensori della proprietà  intellettuale per proteggere le imprese nazionali dai concorrenti. Questa volta, però, l’incognita sono i movimenti sociali, che hanno rivendicato, in India, come propria vittoria la sentenza della Corte Suprema. Non è quindi detto che il governo indiano non deva vedersela nel prossimo futuro proprio con loro. È questa la vera vittoria da salutare: la capacità  dei movimenti sociali di incidere nei rapporti di forza sia a livello locale che su quello globale.


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