Troppa grazia, mister president

by Sergio Segio | 6 Aprile 2013 7:47

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ROMA. Per la corte d’Appello di Milano che lo ha condannato a cinque anni di reclusione insieme a una ventina di agenti della Cia, è stato uno dei protagonisti del rapimento di Abu Omar, l’ex imam di Milano prelevato e fatto sparire il 17 febbraio 2003 nel corso di una «extraordinary rendition» messe in atto dagli Stati uniti dopo l’11 settembre. Sentenza confermata il 19 settembre del 2012 dalla Cassazione. Ma il colonnello Joseph L. Romano III è sempre stato un imputato speciale per Washington che in passato ha espresso il suo disappunto per la condanna arrivando perfino a contestare la giurisdizione italiana su di lui. Malumori espressi più volte e ai quali ieri Giorgio Napolitano ha deciso di mettere fine concedendo la grazia all’ufficiale americano da tempo ormai in servizio presso il Pentagono. Una decisione che «mette fine a una situazione delicata» spiega una nota del Quirinale, e «ispirata allo stesso principio che si cerca di far valere per i nostri due marò in India». Immediata, e scontata, la reazione dell’ambasciata Usa a Roma più che soddisfatta per la decisione del capo dello Stato.

Non a caso Napolitano è visto dall’amministrazione americana come un interlocutore su cui poter contare, tanto da augurare solo due giorni fa una sua rielezione al Quirinale. Del resto la necessità  di trovare una soluzione soddisfacente per Washington alla vicenda dell’ufficiale americano sarebbe stato uno dei problemi affrontati dal capo dello Stato durante la visita compiuta a febbraio negli Statai uniti. E i due ministeri della Giustizia, italiano e americano, da tempo avrebbero lavorato alla ricerca di una soluzione. Che alla fine è stata trovata.
La decisione di concedere la grazia non è stata però del tutto lineare. Ai tempi del sequestro di Abu Omar Romano era il responsabile della sicurezza della base di Aviano, la stessa dove l’iman venne portato nascosto dentro un furgoncino bianco e poi, a bordo di un aereo, spedito prima in Germania e poi in Egitto. E proprio grazie al suo ruolo – secondo l’inchiesta condotta dalla procura di Milano – Romano avrebbe consentito agli agenti della Cia con Abu Omar un ingresso sicuro alla base. Essendo, tra gli indagati di nazionalità  americana, l’unico militare, la sua presenza sul banco degli imputati ha sempre imbarazzato Washington.
E sarà  proprio per il ruolo svolto da Romano che, chiesta dal suo difensore, l’avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, la domanda di grazia ha avuto però il parere negativo del procuratore generale di Milano. Via libera invece, da parte del ministero della Giustizia. Due, principalmente, le motivazioni con cui il Colle ha giustificato la decisione: la scelta da parte di Obama di cambiare l’approccio scelto per garantire la sicurezza interna che ha portato a «pratiche ritenute dall’Italia e dall’Unione europea incompatibili con i principi fondamentali di uno stato di diritto». Ma anche, prosegue la nota del Colle, per dar seguito alle modifiche apportate al codice di procedura penale con un dpr del 11 marzo 2013, modifiche che prevedono la rinuncia da parte del nostro ministero della Giustizia alla giurisdizione sui reati commessi dai militari Nato. Dpr messo a punto, sarà  un caso, al ritorno dal viaggio negli Stati uniti. Per il Quirinale, insomma, la cosa importante era mettere fine a una situazione, la condanna di un militare americano per reati commessi in territorio italiano, giudicata anomala da Washington. E questo nonostante gli sforzi fatti dalla procura di Milano per affermare un principio come l’inviolabilità  del territorio nazionale.
Principio che ritorna anche nelle motivazioni, rese note proprio ieri, che hanno portato alla condanna a 10 anni di reclusione di Niccolò Pollari proprio per il rapimento di Abu Omar. Per i giudici dell’Appello di MIlano l’ex direttore del Sismi avrebbe dovuto «tutelare la sovranità  del nostro Paese», mentre invece permise «che venisse concretizzata una grave violazione della sovranità  nazionale dando «appoggio» alla Cia nel sequestro dell’ex imam. Una persona, ricordano i giudici, che aveva lo «status di rifugiato politico» e che che quindi l’Italia avrebbe dovuto tutelare.

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