by Sergio Segio | 9 Aprile 2013 18:31
La legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell’acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all’azienda di restare in vita “non hanno alcuna incidenza sull’accertamento delle responsabilità nell’ambito del procedimento penale in corso davanti all’autorità giudiziaria di Taranto”.
Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento e l’apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. Le conseguenze immediate potrebbero essere il dissequestro dei prodotti finiti e la ripresa della piena attività della fabbrica di acciaio pugliese, ferme restando le difficoltà della vendita più volte denunciate dall’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio all’autorizzazione concessa con la salva-Ilva.
Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall’altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell’attività del siderurgico. La sentenza arriva nel giorno della protesta a Roma di cittadini e ambientalisti, che hanno manifestato davanti Montecitorio (GUARDA LE IMMAGINI) proprio contro quella norma ribattezzata “legge vergogna”. E a pochi giorni dal referendum per la chiusura parziale o totale dello stabilimento jonico che si svolgerà domenica a Taranto.
Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità – tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull’indipendenza della Magistratura – che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l’attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall’autorità giudiziaria.
La decisione è stata deliberata, tra l’altro – è spiegato in una nota – in base alla considerazione che “le norme censurate non violano i parametri costituzionali evocati in quanto non influiscono sull’accertamento delle eventuali responsabilità derivanti dall’inosservanza delle prescrizioni di tutela ambientale, e in particolare dell’autorizzazione integrata ambientale riesaminata, nei confronti della quale, in quanto atto amministrativo, sono possibili gli ordinari rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento”. La corte ha, altresì, ritenuto che “le norme censurate non hanno alcuna incidenza sull’accertamento delle responsabilità nell’ambito del procedimento penale in corso davanti all’autorità giudiziaria di Taranto”.
Nella prima fase dell’udienza, è stata valutata la costituzione delle parti. Sono stati ritenuti inammissibili gli interventi del Wwf, di Confindustria e di federacciai. I giudici, invece, avevano ammesso l’intervento “ad adiuvandum” di tre allevatori tarantini, rovinati da diossina e pcb. Il loro gregge è stato abbattuto il 10 dicembre del 2008, quando complessivamente vennero uccisi 1200 animali.
VIDEO: L’ULTIMA TRANSUMANZA – La testimonianza degli allevatori
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