Ricognizione sul campo dei disperati

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Su e giù per lo Stivale, tra le numerose vittime del collasso del sistema produttivo: nuovi poveri e operai di Melfi Nessun giornalista o scrittore si è cimentato finora in un racconto a tutto tondo – sociologico, antropologico, esistenziale – della Grande depressione italiana. Eppure è dall’inizio della crisi globale, nel 2007, che il nostro paese ha inclinato pericolosamente un piano già  in discesa da almeno un ventennio. Come un masso che rotola sempre più velocemente per via della forza di gravità , il declino ha accelerato in maniera sempre più violenta, facendo precipitare l’Italia, nel volgere di un lustro, dal rango di quinta potenza industriale mondiale al ruolo di grande malato d’Europa. Non avrebbe potuto esserci occasione più ghiotta per provare a riavvolgere il filo della storia – recente e non solo – del nostro paese e portare a compimento quelle intuizioni che, già  agli inizi degli anni ’60, avevano avuto alcuni intellettuali di frontiera, primo fra tutti Pasolini: la deriva antropologica che avrebbe provocato l’irruzione violenta della modernità  in un paese in larghissima parte ancora contadino, la trasformazione sociale dettata dal consumismo in un’Italietta appena uscita da un ventennio di autarchia produttiva.
 I padroncini del nord-est o brianzoli oggi disorientati dalla globalizzazione che li lascia senza protezioni sono i nipoti degli «scarpari» di Vigevano raccontati da Lucio Mastronardi, imbevuti dell’ideologia post-agricola del faida-te – la microimpresa, la famiglia-azienda, il rimboccarsi le maniche. Gli operai di Melfi che fuggono dalla fabbrica, non adattandosi ai suoi ritmi totalizzanti, hanno molto a che vedere con quella cultura contadina che, secondo Rocco Scotellaro, non si sarebbe mai lasciata vincere del tutto e sarebbe rispuntata qua e là  lungo il corso della storia in forme inaspettate, come un fiore a primavera. Prova a colmare questa lacuna parzialmente, per sua stessa ammissione – Gabriele Polo con un libro il cui titolo è già  tutto un programma: Affondata sul lavoro, l’Italia tra crisi e rabbia (Ediesse, pp. 145, euro 12). Si tratta di una raccolta di reportage-inchieste realizzati nel 2012, anno della recessione più devastante, scarpinando per questo giornale lungo tutto lo Stivale per raccontare il collasso del sistema produttivo e le vittime di questo epocale terremoto: dai «nuovi poveri» dell’ex città -fabbrica Torino agli operai di Melfi, appunto, dove fino a qualche anno fa il mito della piena utilizzazione degli impianti e del ciclo continuo li induceva alla fuga, mentre ora si trovano costretti a lavorare al massimo per due-tre giorni alla settimana, e tutto il resto è cassa integrazione.
 Taccuino alla mano, l’ex direttore del manifesto intervista sindacalisti e imprenditori, lavoratori ed esperti, scrittori e intellettuali, con l’obiettivo di sviscerare i diversi aspetti che la Grande Crisi assume in un paese dalla storia così disomogenea qual è l’Italia. L’obiettivo di Polo è quello di sviscerare le conseguenze della crisi sugli individui e sui gruppi sociali cui appartengono, e come essa stia trasformando in profondità  il Paese. Allora eccola, la Grande Depressione. Non un problema economico e nemmeno lavorativo, o meglio non solo, ma innanzitutto psicologico: la depressione derivante dalla perdita di ruolo e d’identità , a sua volta generata dal collasso produttivo e dall’insufficienza dell’ideologia del tirarsi su le maniche.
Di fronte a un uragano di tale portata, serve a poco aprire l’ombrello di una risposta individuale o erigere piccoli bastioni territoriali. Il solo fatto di averlo compreso manda in tilt tutte quelle persone imbevute del mito individualista e americaneggiante del self made man – il «farsi da solo» berlusconiano – o di un’etica figlia della cultura industriale che, spiega il direttore della Caritas torinese Pierluigi Dovis, «ha abituato le persone a gestire il lavoro, non a costruirselo o a fare impresa». Si tratta, per Polo, di una crisi ideologica, che incrina ogni certezza, toglie fiducia e speranze, inducendo gli italiani a «lasciarsi andare»: i «nuovi poveri», abituati ad avere un tenore di vita agiato, non riescono a metabolizzare il loro status, reagiscono in maniera depressiva e sono più a rischio degli altri. Ne deriva un preoccupante «corto circuito tra crisi economica, spaesamento sociale e crisi della politica» che, a ben vedere, è ben rispecchiato dal recente voto alle elezioni politiche. Viceversa, nell’epoca del post-consumismo di massa, si prova a sopperire alla crisi con l’identità  più facile e a buon mercato che l’Italia possa offrire: quella culinaria. Da qui la spiegazione al paradosso di come, in mezzo a una sofferenza sociale così devastante, un’industria del cibo come Eataly – il tempio dello slow food che proprio nell’anno della Grande Recessione ha aperto un megastore gigantesco nell’ex Air Terminal di Roma – invece non ne sia per niente investito.
Varrebbe la pena continuare ad arare lungo il solco tracciato da Polo, chiedendosi perché una decrescita disordinata disorienti in questo modo gli italiani, e cosa accade negli altri paesi europei che si trovano nelle nostre condizioni. Ad esempio, in Grecia si registra la stessa crisi d’identità ? L’impressione è che Polo propenda per una specificità  italiana, probabilmente a ragione. Una specificità  legata al fatto che questa bassa marea, che somiglia tanto a quanto accadde negli Stati Uniti dopo il crack del 1929, faccia riaffiorare tutti gli scogli irrisolti della nostra storia.


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