Quell’elezione che dilania i partiti di maggioranza ieri e oggi

by Sergio Segio | 19 Aprile 2013 7:45

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ROMA — «Bersani è ormai pronto per allenare l’Inter, può già  telefonare a Moratti: infatti non ne azzecca una. Non sarà  magari tutta colpa sua, ma ci sta portando verso la dissoluzione. In questo momento stiamo in realtà  votando su di lui, altro che Marini. È come se i tifosi della curva nord di San Siro facessero un referendum su Stramaccioni: come finirebbe, secondo lei?».
Ecco un esempio degli umori di parecchi parlamentari del Pd (in questo caso a parlare è ovviamente un deputato di fede nerazzurra), mentre a Montecitorio è in corso la prima «chiama» per eleggere il capo dello Stato. All’ora di pranzo il risultato — prevedibilissimo — è una bocciatura secca per l’ex presidente del Senato. Una contabilità  che fa esplodere, confermandole nel modo più clamoroso, le contraddizioni interne al centrosinistra. Fratture che materializzano sempre più il concreto rischio di un’implosione per la formazione politica uscita dalle urne con l’ambiguo risultato di vincitrice/perdente. In piazza militanti vecchi e giovani alzano cartelli di protesta, urlano e stracciano le tessere, mettendo in crisi la stessa idea dell’antica disciplina di partito: non esiste più. E si parla invece di «suicidio perfetto». In aula rimbalza la notizia di un’ondata di sdegno veicolata su Facebook da migliaia di messaggi. La pressione è forte e il disagio (in qualche caso il compiacimento) dei dirigenti, evidente. Non a caso li si vede alternarsi davanti alle telecamere esibendo sorrisi di stereotipata, e improbabile, sicurezza. Ungarettianamente, è l’allegria del naufraghi. Altro che franchi tiratori, intenti a sabotare nell’ombra le decisioni dei capi. Qui le divisioni e il dissenso vanno in diretta tv. E perfino la portavoce di Bersani annuncia di non essersi adeguata alla scelta del segretario.
Scene che si sono ripetute molte volte, durante le 11 elezioni per il Quirinale della storia repubblicana. Ma, appunto, sempre nei retrobottega della politica, a bassa voce, durante confronti anche duri, ma protetti dalla riservatezza. Insomma: mai in forme tali da alzare il velo in maniera così plateale sui tormenti del partito di maggioranza, cui incombe l’onere di proporre il nome del candidato e che su questo si divide. Trame all’arsenico, in un turbinare di intrighi, colpi bassi, siluramenti fraterni orchestrati «con tanta serenità », come dicevano con feroce ipocrisia i vecchi leader della Dc, sulla quale per quasi mezzo secolo ha fatto perno il sistema italiano.
Già  Luigi Einaudi fu eletto nel 1948 con l’appoggio della sinistra Dc di Dossetti e Fanfani «al posto» dell’uomo proposto invece da De Gasperi, il ministro degli Esteri Carlo Sforza. Più lacerante e complicato da assorbire la prova di forza con cui nel ’55 salì sul Colle il democristiano Giovanni Gronchi, che prevalse al quarto scrutinio addirittura «contro» il segretario del partito. Cioè proprio quello stesso Fanfani che sette anni prima aveva avuto un ruolo decisivo nel far prevalere Einaudi e che poi inutilmente ripiegò sul presidente del Senato Cesare Merzagora, un indipendente di prestigio nelle liste della Dc, ma privo dell’indispensabile patrimonio di tessere. E Gronchi — per inciso — fra tutti i presidenti fu colui che tentò con maggior tenacia di essere confermato nell’incarico, ingaggiando una battaglia con il doroteo Antonio Segni tale da terremotare la geografia del potere scudocrociato e chiusa tuttavia senza successo.
Travagliatissimo, e dirompente per il partito, il percorso di Giovanni Leone per conquistare la massima carica dello Stato. Dopo esser stato impallinato dal fuoco amico democristiano nel 1964, si prese la rivincita nel turno del 1971. Quando si impose sull’eterno candidato (anzi il «candidato unico» della segreteria) Fanfani, ribattezzato con perfidia da Indro Montanelli «Il Rieccolo». La liturgia della conta parlamentare si dovette però trascinare per 23 defatiganti scrutini che tennero il Palazzo con il fiato sospeso, prima che il grande penalista napoletano potesse insediarsi al Quirinale.
Le cose andarono meglio quando scese in campo un king maker abile e potente come Ciriaco De Mita, che inventò l’investitura di Francesco Cossiga. Il quale nel 1985 sbaragliò il campo, battendo Forlani, Zaccagnini e — per quanto sembri assurdo — ancora una volta l’inossidabile Fanfani: tutti «amici» democristiani. Il «picconatore», allora silente al punto da essere ribattezzato «il sardo muto», passò al primo voto e fu il penultimo capo dello Stato espresso dalla Dc. L’ultimo è stato nel 1992 Oscar Luigi Scalfaro, uomo senza il turbo di una corrente a spingerlo e che prevalse su (anzi, contro) big scudocrociati come Forlani e Andreotti, ma pure sul laico Spadolini. Anche nel suo caso, un Parlamento incartato dovette logorarsi per 22 scrutini prima di superare lo stallo. E furono necessari i mille chili di tritolo della strage in cui la mafia uccise Falcone per sbloccare i mille grandi elettori di Montecitorio.
Ieri, in quella stessa aula, si è lesionato pesantemente il mito dell’unità  del Pd ed è caduto il cattolico perbene Franco Marini, «Era una scelta che profumava d’antico», ha alzato le spalle sbuffando Nichi Vendola. Già . Più o meno come ai tempi della Dc.

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