Quei soldi alle scuole private che spaccano Bologna la rossa
BOLOGNA. UN SESSANTENNIO di buongoverno val bene una messa? A Bologna il Pd rischia un clamoroso autogol sul fiore più bello al suo occhiello, le scuole dell’infanzia comunali. È un paradosso micidiale: nella terra dove la sinistra ha inventato la cultura dell’educazione infantile gratuita e per tutti, la regione degli “asili
più belli del mondo”.
E LA città dove quasi otto bambini su dieci, tra i tre e i cinque anni, vanno alla scuola pubblica, ebbene proprio qui il Pd viene messo nell’angolo da un referendum “laicista”, e si trova costretto a difendere a spada tratta il finanziamento pubblico a un mazzetto di materne private, ovverosia a quelle cattoliche, che sono venticinque sulle ventisette “paritarie” a cui va un milione di euro l’anno, tolto da un bilancio comunale sempre più magro.
Si voterà il 26 maggio su due opzioni: B, lasciare tutto com’è, oppure A, prendersi indietro quel milione e darlo solo alle scuole pubbliche. Non è, come si può immaginare, una semplice questione amministrativa: è già scontro tra massimi sistemi, “scuola di tutti” versus “sussidiarietà ”. E neppure una questione locale. Il comitato Articolo 33 (l’articolo della Costituzione che autorizza le scuole private ma «senza oneri per lo Stato») ha alzato al massimo la posta, ha reclutato un plotone di
testimonial di gran nome, Andrea Camilleri, Salvatore Settis, Margherita Hack, Angelo Guglielmi, Sabina Guzzanti, Moni Ovadia, Isabella Ragonese, il collettivo di scrittori Wu Ming che sta conducendo un autentico battage su Internet, e soprattutto il “quirinabile” Stefano Rodotà , che appoggia convinto «un’iniziativa rispettosa dei valori della Repubblica». E il partito di governo, che aveva preso sottogamba la sfida («È un sondaggio del cuore», minimizzava il segretario Pd Raffaele Donini) da qualche giorno è diventato molto, molto nervoso. «Marziani che non sanno nulla della situazione di Bologna», reagiscono al partito contro le intrusioni eccellenti, e rispondono con Massimo Cacciari e l’economista cattolico di punta Stefano Zamagni. Ma scontano anche l’appoggio entusiasta e imbarazzante del centrodestra («Uniti al sindaco Merola nella lotta!»), e il fiato sul collo della Curia, perentoria e ultimativa: «Se dobbiamo morire moriremo, ma ai nostri 1700 bambini chi ci penserà ?».
La linea di difesa della giunta assediata, per sfuggire al fuoco ideologico incrociato, punta su considerazioni pratiche: «Con quel milione non riusciremmo a dare un
posto nelle scuole comunali a tutti i bambini che lo vorrebbero ma restano esclusi, e le scuola paritarie hanno per legge una funzione pubblica ». Insomma, quei soldi servirebbero a dare una risposta alle famiglie lasciate a piedi dalle graduatorie d’accesso. La realtà non è così semplice. All’inizio di quest’anno, è vero, c’erano 463 bambini
esclusi e “in lista d’attesa”, ma via via, anche grazie all’apertura di nove classi comunali, sono scesi a 103. E il paradosso è che ci sono ancora 95 posti vacanti nelle paritarie.
A quanto pare molti genitori non vogliono comunque mandare i figli nelle scuole confessionali. Oppure non possono: perché, nonostante i finanziamenti, per “rifugiarsi”
nelle private si paga, e non poco. Rette che vanno da duecento a sei-ottocento euro al mese e oltre.
Ma il punto in realtà non è l’emergenza posti. Perché quando il sistema del finanziamento alle private fu creato, quasi vent’anni fa, quel problema non c’era affatto: le materne pubbliche davano risposte a tutte le richieste. Perché allora si decise la generosa dazione? Per ragion politica. Era il ‘94, e a Bologna, incubatore civico dell’imminente Ulivo, stava maturando l’incontro fra exdc ed ex-pci, il sindaco Vitali portava in giunta i cattolici, e l’accordo con la Fism, influente associazione nazionale delle scuole cattoliche, fu il pegno d’amore di quel matrimonio. Che adesso non si può rompere per ragioni analoghe, infatti già i cattolici del Pd scalpitano: «No all’anticlericalismo e al razzismo contro le scuole cattoliche », intima Giuseppe Paruolo, ex assessore, renziano, ma a loro volta i laici mugugnano. A Roma sono allarmati: non serve proprio un’altra fonte di tensione interna, in questo momento.
Così, il gioco si fa duro. La tardiva richiesta del Comune allo Stato perché «faccia la sua parte» non basta più. Piazze e contropiazze sono già prenotate. La Curia scende in campo direttamente, il vicario episcopale Silvagni sprona i parroci a non restare inerti, la giunta cede i suoi spazi istituzionali ai difensori dell’“opzione B”, il sindaco accusa i referendari di sprecare ben mezzo milione di euro (tanto costa la consultazione) per risparmiarne uno. Poi però li fa imbestialire annunciando che, comunque votino i suoi concittadini, per lui non cambierà nulla: «Sono stato eletto per sostenere il sistema integrato pubblico e privato e lo manterremo fino alla fine del mandato». «E allora cancelli i referendum dallo statuto comunale», reagisce inferocito il fronte dell’A. «Non sei più il mio sindaco! », tuona l’attore Ivano Marescotti. La tensione riesce a spiazzare perfino i grillini, ufficialmente pro-referendum, ma col capogruppo Massimo Bugani che frena: «I finanziamenti potranno continuare, magari ridotti». Un mese ancora di questa escalation promette molto male. E un eventuale disarcionamento della giunta di sinistra dal suo storico cavallo di battaglia non resterebbe senza conseguenze, non solo a Bologna.
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