Quei paletti insormontabili

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Il primo riguarda, ovviamente, i punti qualificanti del programma. Il governo non può certo abdicare alla politica economica definita dal governo Monti in accordo con l’Europa.
Il che significa, in primis, che il pareggio in bilancio, tranquillamente inserito in Costituzione senza alcun dibattito, vincola le scelte in maniera molto stringente. Lo si è già  visto quando il governo per gli affari correnti, nei suoi ultimi sussulti, ha varato lo sblocco dei pagamenti dell’amministrazione pubblica alle aziende creditrici: le varie limature al provvedimento derivavano proprio dal contemperare un iter veloce con le rigorose linee guida definite in sede comunitaria.
Il pareggio di bilancio è una linea del Piave. Provvedimenti di finanza creativa o di allentamento del rigore non sono consentiti se non in misura limitata. E qui sorge il problema dell’Imu. Berlusconi ne ha fatto un punto irrinunciabile. È perfettamente comprensibile che non voglia rinunciare al suo cavallo di battaglia. Se vince su questo punto sfonda su tutta la linea: dimostra di essere lui la vera guida del governo, e che la sua proposta, condannata da tutti – Mario Monti, strabuzzando gli occhi alla sua maniera, se ne uscì parlando di grave irresponsabilità  – in realtà  era giusta. Quindi se Letta – e Monti – cedono su questo, il governo prende una chiara curvatura berlusconiana.
Altrettanto decisiva è la presenza di ex ministri dell’ultimo governo Berlusconi nella lista di Letta. Il ritorno degli ex ministri fornisce una plastica conferma della validità  del loro operato fino al novembre 2011. In questo modo la narrazione berlusconiana della caduta del governo della nomina di Monti come l’interruzione a tradimento di un onesto lavoro per il bene del paese, diventerebbe una verità  incontestabile. Il governo tecnico e le elezioni non sarebbero altro che un fastidioso intermezzo in una lunga e gloriosa cavalcata alla guida del paese. E se eravamo sull’orlo della bancarotta questo era solo colpa della Merkel.
Prima di consegnare le chiavi (simboliche) del governo al Cavaliere va poi considerato un’altra questione decisiva: l’ostilità  dell’establishment internazionale nei confronti di Berlusconi. La sua ombra lunga sul giovane Letta inquieta i mercati e fa storcere il naso alle cancellerie. Oltralpe non dimenticano con la nostra facilità  i suoi propositi di ritornare alla lira, di rinegoziare tutto a Bruxelles, di “fargliela vedere” alla Cancelliera. La rispettabilità  faticosamente riguadagnata da Monti svanirà  in un battibaleno: ritorneremo il paese del bunga bunga. È un costo che possiamo permetterci?
Infine, planando sul terreno più squisitamente politico, cosa deve fare il Pd del programma di cambiamento proposto da Bersani subito dopo le elezioni e che aveva al suo primo punto il conflitto di interessi? Il centrosinistra è stato messo alla gogna per anni e da tutti (non solo dai grillini, buoni ultimi in questo) per non avere mai risolto questo problema. Se non lo affronta, le accuse di tradimento e connivenza con il “nemico” lo faranno a fette. Se lo ripropone, il governo non vede la luce. Un bel dilemma per il presidente incaricato. Un dilemma che comporta, in modo o nell’altro, costi elevatissimi per il Pd. Il vicesegretario del partito ha giustamente accettato l’incarico con riserva perché le trappole del Cavaliere sono insidiose. Valuti i costi sopportabili e non, senza dimenticare cosa è stato il berlusconismo (e una lettura di tutti quotidiani del novembre 2010 potrebbe confortarlo), e tenendo conto dei vincoli europei e della nostra immagine nel mondo. E infine, non dimentichi che il Pd, per quanto scosso, è ancora il partito di maggioranza assoluta nella Camera dei deputati. Senza il suo consenso non si muove foglia.


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