Quei bravi ragazzi venuti dalla Cecenia che l’odio ha trasformato in demoni

by Sergio Segio | 20 Aprile 2013 7:18

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WASHINGTON — Il lungo viaggio di Tamerlan e Dzhokhar per sfuggire al terrore finisce, dieci anni e diecimila miglia più tardi, esattamente da dove era partito, nella violenza. Non più vittime, ma carnefici, i due ragazzi ceceni che il padre aveva affidato all’America perché avessero una vita, che avevano preso cittadinanza e permesso di soggiorno, hanno pagato, e fatto pagare, il prezzo di quel sangue che non si erano mai lavati dall’anima.
La loro storia è finita ieri notte, quando hanno finalmente intrappolato e circondato con un’armata Dzhokhar il diciannovenne con il cappellino bianco e la faccia triste, come era finita la notte prima nell’obitorio dell’ospedale Beth Israel di Boston, la Casa di Israele, per Tamerlan il ventiseienne con il cappellino nero, il duro, ed è una storia che non sembra avere alcun senso riconoscibile per noi. Tamerlan e Dzhokhar non avevano nessuna di quelle motivazioni economiche, sociologiche, personali che usiamo per cercare di comprendere l’incomprensibile. Fino a quella frase detta da Tamerlan quasi con orgoglio, forse con sollievo, poco prima di morire sotto i colpi della polizia, venerdi notte a Cambridge, al proprietario del Suv Mercedes che avevano rapito: «Noi siamo quelli della bomba alla Maratona ». I due ragazzi arrivati dalla Cecenia martir izzata dalla violenza dell’Armata Rossa e dell’Omon , la polizia politica russa , passati per il Kyrgyzistan, la nazione della quale avevano il passaporto, e accolti negli Usa come rifugiati politici nel 2000, avevano vissuto appieno la «America Way Of Life». In apparenza, non soltanto si erano integrati, ma erano divenuti protagonisti dei miti e riti della vita americana. Sotto l’ala dello zio paterno, che li aveva accolti a casa in una casa molto middle class di Cambridge, oltre il fiume Charles che divide la città  di Harvard, del Mit, delle famose università  da Boston, avevano frequentato il buon liceo pubblico locale, il «Ridge and Latin». Lo stesso liceo dal quale erano usciti Ben Affleck e Matt Damon.
In quel liceo, Tamerlan era quello che ogni ragazzo sogna di essere. Un atleta, poi pugile dilettante di vaglia, vincitore di due Golden Glove, guanti d’oro, i tornei che possono condurre alla nazionale Usa di boxe, mentre il fratellino, più piccolo, diventava capitano della squadra di lotta libera, nella propria categoria di peso. «Voglio combattere per gli Usa, non per i Russi» aveva scritto «cappellino nero», aveva detto agli amici e confidato alla sua ragazza, una donna di origine italo-iraniana anche lei emigrata negli Usa, secondo quanto racconta. Il fratellino, che aveva avuto una borsa di studio al liceo, 25.000 dollari, una delle appena sette concesse dal Comune di Cambridge per l’Università  dove studiava filosofia, era l’incarnazione del «good kid», del bravo ragazzo un po’ timido, amato anche dai compagni della squadra che capitavana.
La spiegazione, che ora si tenta di trovare, è nella improvvisa radicalizzazione religiosa del più grande, Tamerlan, che secondo la zia aveva moglie e figli, e che portava il nome del grande Khan Mongolo, scoppiata senza preavviso. Si leggono chiavi in dettagli come la data della sua naturalizzazione americana, l’11 settembre dello scorso anno, ma le date per queste cerimonie collettive non sono scelte dai partecipanti. Aveva smesso di fumare e di bere, per restare puro,
citava sul social network l’Islam come propria visione del mondo, ma gli amici e le amiche dicono ora di non averlo mai sentito dire nulla che potesse far pensare a un jihadista violento. «L’ultima persona capace di fare questo» twitta una compagna di università  nel Community College di Cambridge. «Il più americano dei ragazzi che avessi incontrato» aggiunge un altro, che viveva nel suo stesso dormitorio. Addirittura «un angelo» fa sapere il padre dal Daghestan. Invece «due losers», due sconfitti, replica lo zio Ruslan, in una conferenza stampa concitata nella quale li maledice e li disconosce.
Angeli e demoni, capaci di mimetizzare l’odio che cominciavano a nutrire e che riaffiorava dall’infanzia nell’orrore della guerra civile in Cecenia e che l’islamismo aveva fatto fermentare, come il classico fiasco di vino a stomaco vuoto? C’è un post online del più giovane che tradisce qualcosa, che sussurra la sua alienazione da un’America nella quale sembrava integrarsi e che gli aveva dato il permesso di soggiorno e le borse di studio: «Non ho neppure un amico americano, proprio non li capisco ». Dunque lui, studente modello, e il fratello maggiore, spigliato, un po’ arrogante nella foto, bel ragazzo, atleta, vivevano una vita di finzione. Alla ricerca di una propria identità , che Tamerlan aveva trovato nell’odio per la propria nuova terra e probabilmente per la complicità  tacita degli Usa nel massacro dei ceceni e delle speranze di indipendenza. Eppure mai terroristi e guerriglieri ceceni avevano colpito negli Usa, colpevole al massimo, nel caso dei massacri russi, di assenza, non certo di presenza.
Ma se ancora non sappiamo dove e come avessero trovato gli esplosivi usati per uccidere e ferire quasi 200 persone, le armi e il fucile con il quale hanno duellato con la polizia dopo avere ucciso una guardia nel campus del MIT, le cariche portate con loro nell’ultimo tentativo di fuga e lanciate contro le
auto inseguitrici, è evidente che i due fratelli non avevano vocazioni al martirio. Quegli esplosivi, portati sul corpo per nasconderli, non era il famigerato gilet al tritolo usato dai kamikaze terroristi. Hanno cercato, come ancora fa «cappellino bianco», di salvarsi la pelle, sia pure con comportamenti bizzarri: tutti e due erano tornati alla loro vita normale, al college, sperando di rientrare nel fiume della quotidianità .
Non ci sono ancora, e anche l’Fbi lo ripete, collegamenti con organizzazioni del terrorismo islamiista, ma esiste la possibilità  di un viaggio in Russia di sei mesi di Tamerlan. Soltanto sintomi, indizi di un’inquietudine interiore che nel tempo scavava dietro l’apparenza del bravo ragazzo yankee. Racconta Eric Menendez, un compagno di Dzhokhar, che lui scattò quando parlarono di terrorismo e disse che «il terrorismo è comprensibile, in posti come quelli da dove vengo». E a un compagno di squadra nepalese che gli chiedeva da dove venisse, lui rispondeva brusco e si chiudeva: «Da qualche parte della Russia». E basta.
Eppure capire è necessario, perché la metamorfosi maligna di due ragazzi passati dal sogno all’incubo americano senza eventi speciali può ripetersi in altri insospettabili, anche in coloro che credevano di essere fuggiti dal terrore e lo hanno ritrovato dentro di sè. E sono finiti, come giovedì notte è accaduto a Dzhokhar, a passare sopra al cadavere del fratello guidando il Suv rubato. Che forse era ancora vivo.

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