by Sergio Segio | 7 Aprile 2013 8:10
Poi ha preso o perso tempo molte volte, rinviando tutto quello che si poteva rimandare, dalle elezioni alle battaglie per le riforme. In campagna elettorale il Pd ha perso il tempo e l’occasione storica di vincere presentando ai cittadini un programma chiaro e innovativo.
Salvo scoprire dopo il voto di averne uno eccellente in otto punti e comunicarlo a Grillo, invano. Dalle elezioni a oggi il Pd perde il suo e il nostro tempo insistendo su Bersani premier, quando con un nome diverso, Rodotà o Zagrebelsky per dire, avrebbe spaccato il fronte del no grillino, come sperimentato con la candidatura Grasso al Senato. Questo non lo ha detto Renzi e forse neppure Rosi Bindi, che ha smentito l’intervista al Secolo XIX, ma comunque lo pensano i milioni d’italiani di cui sopra.
Il Paese, stremato dalla crisi, ha esaurito la pazienza. Ora il Pd deve imboccare in fretta e a tutta velocità una delle strade che ha davanti. In ordine di decenza: il ritorno al voto, un serio tentativo di accordo col M5S, il governissimo con Berlusconi. Il ritorno alle urne a giugno sarebbe la scelta più coerente e rispettosa dell’elettorato. Gli italiani non hanno scelto una maggioranza il 25 e 26 febbraio perché non hanno ritenuto convincente né il sistema elettorale né l’offerta politica. Nel dilemma fra una sinistra appena riverniciata e la vecchia, immutabile destra berlusconiana, è stata premiata la forza che ha meglio interpretato la voglia di cambiamento, il movimento di Grillo. Ma con un’altra legge elettorale e con una leadership nuova, il Pd avrebbe grandi chances di vittoria. Il problema è che la nomenklatura del partito ha terrore del voto, non da oggi, ma da sempre. In realtà nuove elezioni dovrebbero spaventare molto di più gli avversari. Grillo rischia di non ripetere mai più il risultato eccezionale di febbraio. Quanto a Berlusconi, finge di volere il voto, ma sa benissimo che non potrebbe mai tornare a palazzo Chigi, non dopo il fallimento di questi anni, quasi ottuagenario e con i processi a sentenza, le cancellerie straniere e i mercati fortemente ostili e due terzi degli italiani che non possono più sopportarne neppure la vista.
La seconda strada, un serio tentativo di accordo coi grillini, passa per una rinuncia di Bersani a favore di un nome gradito al movimento. Il modello siciliano, di cui tanto si parla, o l’elezione del presidente del Senato non sarebbero stati possibili se al posto di Crocetta e Grasso vi fosse stata, per dire, la rispettabilissima Finocchiaro. Un tentativo in questo senso è tardivo ormai, ma ancora possibile. Subito però e senza imbarazzanti corteggiamenti, il Pd potrebbe proporre un governo riformista ai deputati e senatori del M5S. Se poi quelli preferiranno ancora farsi imporre la linea da Grillo e Casaleggio, dopo una gita in comitiva al casale, affari loro e di chi li ha votati.
La terza soluzione, l’accordo con Berlusconi, è la più definitiva. Nel senso che comporta a breve l’estinzione del partito. Un accordo col Cavaliere per il Quirinale e il governo, in cambio s’intende di una bella amnistia personale per i reati, consentirebbe al Pd e a Bersani di guidare il Paese. Per quanto tempo? Forse sei mesi, magari un anno. Il tempo necessario a Berlusconi per chiudere le vicende giudiziarie, far saltare come sempre il tavolo e ritornare al voto, col Pd a quel punto invisibile ai radar dei sondaggisti.
Comunque sia, è il tempo delle scelte. Qui e ora. Prima che il Pd si spacchi in tre, come sta già avvenendo, fra chi (Renzi e i renziani) invoca nuove elezioni, chi (Franceschini) è tentato dal patto col diavolo, chi ancora crede alla possibilità di dividere i grillini da Grillo. Essere riformisti, in una nazione come questa, significa avere molto coraggio. Ma dov’è il coraggio nel perdere tempo del Pd?
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