by Sergio Segio | 23 Aprile 2013 7:41
Stavolta metterà gli avversari di due mesi fa di fronte al risultato elettorale e alle loro – parolina magica – «responsabilità ». Inchiodandoli a un governo politico di larghe intese, che non vuole si chiami del presidente perché sarà il governo di questo parlamento e delle sue tre minoranze. Altrimenti il secondo Giorgio Napolitano è pronto a dimettersi subito, come per qualche ora ieri si è dimesso il primo. E non per assecondare «l’ovvio dato dell’età », ma per «trarre le conseguenze dinanzi al paese». Prendere o lasciare.
Una sfida nella quale per la prima volta nella storia della Repubblica un presidente mette sul piatto il peso della maggiore popolarità rispetto a chi lo ha appena eletto. Eccola qui la «posta implicita» dell’appello disperato e impotente che Bersani, Berlusconi, Monti e (quasi) tutti i presidenti di regione hanno elevato al capo dello stato sabato mattina. Un presidenzialismo esplicito.
È un uomo anziano ma forte nel carattere, capace di dominare più volte la commozione per il passaggio storico che gli è venuto in sorte, quello che comincia a parlare alle cinque e tre minuti del pomeriggio davanti alla camera riempita in ogni sgabello, ai generali e ai cardinali e ad almeno un paio di aspiranti presidenti della Repubblica freschi di delusione; è il cuore di una cerimonia che si ripete ogni sette anni ma che stavolta ha lo stesso protagonista e un programma tagliato per l’austerità e per la pioggia. È un uomo che da sessant’anni è nelle istituzioni, che comincia con un omaggio ai rappresentanti del popolo ma che continua rovesciando un discorso di durissima critica sulle teste dei grandi elettori. Tanto che ai deputati e ai senatori del Movimento 5 stelle ogni tanto scappa di applaudire, violando così la rigida consegna al tacito dissenso, perché riconoscono se non i toni di certo gli argomenti delle loro critiche. La loro infatti è l’unica forza politica che il presidente cita direttamente, incoraggiando l’evoluzione parlamentare e picchiando duro sugli eccessi di piazza, come si conviene a un vecchio «destro» del Pci. Ragiona anche del rapporto tra la rete e la politica, il presidente, e conclude ricordando a Grillo il «metodo democratico» che la Costituzione impone ai partiti.
Ma i destinatari primi del messaggio sono le più vecchie forze politiche, e tra esse soprattutto il suo partito, il Pd. Berlusconi non per niente è contentissimo, prende appunti e alla fine omaggia il fu «comunista Napolitano» del suo inno personale e del suo anelito presidenziale: «Per un giorno cantiamo meno male che Giorgio c’è». Bersani invece tamburella con le dita sullo scranno e di tanto in tanto discretamente applaude, è con lui che il presidente della Repubblica regola i conti in pubblico. Gli carica il peso della mancata riforma elettorale: «Il vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in parlamento». Cioè non è stato in grado di far votare i suoi per Marini e poi per Prodi. Gli ricorda che «volere il cambiamento», che è stato lo slogan di Bersani, «dice poco e non porta a nulla se non ci si misura sui problemi». E che il governo «deve avere la fiducia delle due camere», mentre il centrosinistra ce l’ha (o ce l’aveva) solo a Montecitorio. E infine, ferocemente, lo invita «a prendere atto, piacciano oppur no» dei risultati elettorali, «qualunque prospettiva si sia presentata o qualunque patto sia stato stretto con i propri elettori». «Mai con Berlusconi», secondo il capo dello stato, è una formula che non può reggere di fronte al risultato elettorale dei democratici. La legge elettorale era pessima ma l’esito delle elezioni va rispettato, sostiene. Gli si potrebbe obiettare – a proposito di rispetto degli elettori – che non solo il Pd, ma tutti i partiti hanno preso i voti l’uno contro l’altro escludendo ogni alleanza. Ma Berlusconi ha cambiato idee e convenienze e il Pd è ridotto al silenzio.
Ci sono stati tempi in cui i messaggi del presidente della Repubblica nel giorno del giuramento erano rivolti a tutto il paese. Erano messaggi che inquadravano la vita dei cittadini nella storia della Repubblica e della sua Costituzione, dando il senso delle sfide collettive e della comunità . Era stato così anche nell’altro giuramento dello stesso presidente. Ma questa volta Napolitano aveva un messaggio urgente per il suo uditorio stretto: i partiti, individuati come l’anello debole della crisi. Responsabili di «omissioni, guasti e chiusure», eppure plaudenti di fronte alle critiche. «Non siate auto indulgenti», ha detto allora il presidente, ricevendo un altro applauso.
Avremo così le larghe intese, che Napolitano considera da tempo l’unica medicina possibile per curare il ventennale bipolarismo rissoso. Non si concede, il presidente, alcun ripensamento sul sistema maggioritario, e nessuna autocritica sugli esiti del governo Monti, il suo primo esperimento bipartisan. Ma concentra la sua attenzione sul Palazzo. Al punto che quando deve indicare la ragione ultima del suo «eccezionale» bis indica non tanto la crisi economica, quanto «il rischio ormai incombente di un avvitarsi del parlamento nell’inconcludenza». Dopo cinque soli scrutini.
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