by Sergio Segio | 17 Aprile 2013 6:29
Le cifre dicono che lo scorso anno ognuno di noi era più povero di 1.586 euro rispetto all’inizio del secolo. Dal 2001 a oggi il Prodotto interno lordo procapite a prezzi costanti, cioè la ricchezza reale realizzata mediamente da ciascun cittadino, si è ridotto in Italia del 6,5 per cento. Unico Stato dell’eurozona ad aver accusato una botta simile.
Con il segno «meno» davanti a questo indicatore, oltre a noi, c’è soltanto il Portogallo. Dove però la flessione, stando sempre ai dati del Fmi, è stata del 4,1 per cento: dunque ben inferiore. Tutti gli altri quindici Paesi dell’Ue che utilizzano l’euro si sono invece arricchiti. Quasi impercettibilmente, come Cipro: isola che pur investita da una crisi finanziaria senza precedenti ha visto crescere il Pil procapite reale di 0,3 punti. Oppure in modo impetuoso, se si guarda al +61,1 per cento e al +51,4 per cento messi rispettivamente a segno dalla Slovacchia e dall’Estonia.
Ma sono i confronti con le economie più vicine alla nostra a rivelarsi davvero sconcertanti. Mentre l’Italia si impoveriva del 6,5 per cento, la Germania accresceva il Pil procapite reale del 14,3 per cento: 3.556 euro. L’Austria, del 13,8. I Paesi Bassi, dell’8 per cento. Il Belgio, del 7,9. L’Irlanda, del 6. La Francia, del 4,3. La Spagna, aggredita dalla recessione ancora più violentemente dell’Italia, del 2,8. Perfino in Grecia, Paese oggi in ginocchio, la ricchezza procapite reale prodotta nel 2012 risultava superiore dell’1,6 per cento a quella del 2001: ogni greco produceva a conti fatti 238 euro in più.
Il succo? Intanto che la causa dei mali italiani non può essere la moneta unica, come alcuni partiti si ostinano a dire. L’euro ha rappresentato anzi un bel sollievo per un debito pubblico mai sceso da 22 anni sotto il cento per cento del Pil. Prova ne sia che nel 2012, con un indebitamento di 1.898 miliardi, ne abbiamo spesi 78,2 di interessi, contro i 72,4 del 2001: quando però il debito era a quota 1.358 miliardi. Il tasso medio d’interesse è dunque sceso dal 5,77 al 4,12 per cento, nonostante lo spread in orbita.
Quel -6,5 per cento che pesa come un macigno soprattutto sui nostri figli è invece il frutto delle riforme mai fatte per mettere il Paese in condizioni di competere nel mondo globalizzato: un’Italia meno corrotta, con una pubblica amministrazione efficiente, un fisco equo, una giustizia decente, opportunità per le donne e le giovani generazioni… È il frutto, per dirla tutta, dell’incapacità mostrata nel dare risposte a questi problemi da parte di una classe politica (e dirigente) vecchia, egoista, insensibile all’etica e refrattaria al cambiamento.
Così, mentre gli italiani si impoverivano e i politici non si stancavano di promettere tagli alle tasse e cure dimagranti per lo Stato, la pressione fiscale raggiungeva livelli record al fine di saziare il costo crescente degli apparati pubblici. Fa impressione notare come al calo di sei punti e mezzo della ricchezza abbia corrisposto, nello stesso periodo, un aumento altrettanto reale della spesa pubblica al netto degli interessi pari al 12,5 per cento. Se questa voce avesse seguito il calo del Pil procapite, oggi lo Stato spenderebbe circa 200 miliardi in meno: 600 anziché oltre 800.
Per non parlare dei costi della politica, del tutto indifferenti al declino del Paese. Il sindacato Uil ha calcolato che quel fardello abbia ormai raggiunto 24 miliardi. Stefano Monsurrò ha scritto in uno studio per l’Istituto Bruno Leoni che un serio intervento potrebbe far risparmiare all’Italia 15 miliardi l’anno: 2 solo cancellando le Province con un colpo di spugna. Già , l’abolizione delle Province. Qualcuno ricorda?
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