Paradisi fiscali, cade anche il Lussemburgo

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Ieri due dei generali delle potenze che guidano le forze in campo, il segretario del Tesoro americano, Jacob Lew, e il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schauble, si sono visti a Berlino per concordare le prossime mosse. La prima è stata la firma di una lettera congiunta tra Germania, Italia, Spagna, Francia e Gran Bretagna, con la quale i cinque Paesi hanno chiesto al Commissario europeo agli affari fiscali, Algirdas Semeta, che l’Europa adotti un meccanismo simile al Foreign account tax compliance act americano, un sistema per cui le informazioni relative ai conti correnti all’estero vengono trasmesse automaticamente alle amministrazioni finanziarie dei paesi in cui il correntista è residente.

L’ultimatum ha avuto effetti. Il Lussemburgo ha capitolato. Il premier Jean Claude Junker ha assicurato che il Gran Ducato dal 2015 comunicherà  automaticamente al Fisco delle altre nazioni, i dati degli interessi pagati ai correntisti di altri Paesi. “Il settore finanziario non dipende interamente dal segreto bancario”, ha detto Junker per tranquillizzare probabilmente più sé stesso che i partner europei.

Junker ha ceduto perché ha una pistola puntata contro la testa. Il Lussemburgo ha un sistema bancario che pesa 20 volte il suo prodotto interno lordo. Quello di Cipro pesava “solo” 7,8 volte. Se salta una banca il Gran Ducato non avrebbe i soldi per il salvataggio. Nicosia, con il prelievo del 40% sui conti correnti superiori a 100 mila euro è più di uno spettro. È una prospettiva concreta.

Soprattutto dopo che, proprio in queste ore, la Commissione Europea sta preparando la nuova bozza per la risoluzione delle crisi bancarie, nella quale è scritto che in caso di salvataggio gli unici depositi che possono essere salvati sono quelli delle persone fisiche e delle pmi sempre, ovviamente, purché inferiori a 100 mila euro. Neanche i depositi interbancari, ossia i prestiti tra istituti di credito, si salverebbero più.

Cipro, del resto, nel “contratto” firmato per ottenere i 10 miliardi dall’Europa necessari al suo salvataggio, tra le clausole fondamentali che ha dovuto accettare c’è proprio la fine del segreto bancario. Chi credeva che Vladimir Putin alzasse di più la voce per difendere i capitali russi riparati a Nicosia, è rimasto deluso.

Mosca ha lo stesso problema di Washington, di Berlino e di Roma. Frenare la fuga di capitali verso centri off shore. Dalla Russia ne sono partiti per 75 miliardi. Putin ha provato a introdurre nuove regole per fermare l’emorragia, ma non è riuscito a superare le resistenze degli oligarchi. Così su Cipro si è limitato ad una difesa d’ufficio, senza schierare l’artiglieria.

Junker, che oltre ad essere premier del Lussemburgo è stato per anni presidente dell’Eurogruppo, ha capito il messaggio. E ha capitolato. Prima di puntare su Berna, come detto, manca un’ultima capitale da espugnare: Vienna. L’Austria è il solo Paese che si oppone a dare un mandato all’Unione Europea per trattare con la Svizzera e gli altri Stati terzi (Liechtenstein, San Marino) un accordo per lo scambio di informazioni. Ma le resistenze stanno cedendo. «Siamo pronti – ha dichiarato in una intervista il cancelliere socialdemocratico Werner Faymann – a negoziare un miglioramento dello scambio di dati bancari. L’Austria parteciperà  attivamente alla repressione dell’evasione fiscale in Europa».

Berna, insomma, è a portata di mano. Barack Obama, del resto, ha già  fiaccato le difese svizzere al segreto bancario elvetico. La battaglia campale l’ha vinta grazie a Bradley Birkenfeld. Fino a poco tempo fa era un anonimo manager di Ubs, l’Unione delle Banche Svizzere. Poi, improvvisamente, ha deciso di spiegare al Fisco statunitense come la banca aiutava a nascondere in Svizzera i soldi dei contribuenti americani.

Una delazione premiata da Obama con un assegno a Birkenfeld di 104 milioni di dollari e che ha costretto Ubs a pagare 780 milioni di dollari al Fisco Usa e a fornire l’elenco di 4 mila titolari di conti segreti. Ma soprattutto ha convinto Berna a siglare un accordo per lo scambio di informazioni con Washington. Proprio quello che la Svizzera sta cercando di evitare con l’Europa proponendo patti bilaterali che prevedono il pagamento di consistenti somme di denaro per poter mantenere il segreto. Roma ha rifiutato. La Germania aveva inizialmente accettato, poi ha fatto marcia indietro.

L’impressione è che i Paradisi europei ormai siano ad un passo dal cadere. Persino il Vaticano, centro offshore addirittura all’interno di una delle capitali europee, potrebbe presto cedere. Dopo gli scandali dello Ior, sotto costante attacco della Banca d’Italia, è un anno e mezzo che il vaticano tratta con Moneyval, il Comitato antiriciclaggio del Consiglio d’Europa, per rimettere in riga le proprie attività  nella finanza. Un nuovo progress report è atteso per dicembre.

Intanto l’attenzione si è spostata verso le mete tropicali. Con lo stesso schema usato da Obama nel Vecchio Continente. Prima abbattere la reputazione di inviolabilità  del segreto dei conti mantenuti in quei paradisi. Poi costringerli ad accettare lo scambio di informazioni. Il primo attacco è già  iniziato. Oltre 260 Gigabite di dati riservati di alcune finanziarie delle British Virgin Island e delle Isole Cook, sono stati recapitati anonimamente a Gerard Ryle, del consorzio internazionale dei giornalisti d’inchiesta. L’offshoreleaks è appena iniziato. La partita in gioco sono 32 mila miliardi di dollari celati in paradiso. Come direbbe Margaret Thatcher, I want my money back. È il refrain di ogni governo. A partire da Obama, che vuole recuperare almeno 100 miliardi alle sue casse.


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