by Sergio Segio | 27 Aprile 2013 6:49
Non è un complimento dire di Adriano Olivetti che fu “uno Steve Jobs italiano”. Era molto meglio. Per la cultura umanistica, per la sensibilità sociale, per l’attenzione ai diritti dei lavoratori. Leggete questi interrogativi che si poneva Olivetti più di sessant’anni fa: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi fini semplicemente nei profitti? O non vi è qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione?». Per tutta la vita Olivetti s’impose di ricordare un ammonimento di suo padre Camillo, il fondatore dell’azienda di Ivrea: «Ricordati che la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna; devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano a subire il tragico peso della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro». Adriano commentava: «Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo». No, la Apple di Jobs che sfrutta gli operai cinesi ha ancora qualcosa da imparare da Olivetti.
Adriano Olivetti è un personaggio da riscoprire: di un’attualità sconcertante, capace di intuizioni avanzatissime. Lui che fu un protagonista — controverso, incompreso — del primo boom industriale italiano, già vedeva un futuro post-industriale. Dalla società alla politica, dalla tecnologia all’urbanistica, ha ancora molto da insegnarci. Oggi il meglio di Olivetti ci viene riproposto nel primo volume di una serie a lui dedicata: Il mondo che nasce, una raccolta inedita di dieci suoi discorsi, dal dopoguerra al 1959 cioè l’anno prima della sua morte (Edizioni di Comunità ).
La sua solidarietà con i lavoratori non nasceva da un percorso astratto. Da ragazzo, il padre Camillo lo aveva messo a lavorare in fabbrica: sul serio, non per una di quelle sceneggiate che altri rampolli di dinastie industriali hanno recitato. Ecco come Adriano ricordava l’esperienza: «Conoscevo la monotonia terribile e il peso dei gesti ripetuti all’infinito davanti a un trapano o a una pressa, e sapevo che era necessario togliere l’uomo da questa degradante schiavitù. Bisognava dare consapevolezza di fini al lavoro». Un altro passaggio autocritico, che pochi top manager moderni vorrebbero pronunciare: «Percorsi rapidamente, in virtù del privilegio di essere il primo figlio del principale, una carriera che altri, sebbene più dotati di me, non avrebbero mai percorsa. Imparai i pericoli degli avanzamenti troppo rapidi, l’assurdo delle posizioni provenienti dall’alto».
Olivetti si forma in un periodo di grandi delusioni, di utopie sconfitte. Dal 1919 al 1924 mentre studia al Politecnico di Torino assiste alla «tragedia del fallita, della rivoluzione socialista ». Nel 1925 parte per l’America, a studiare il grande laboratorio della modernità , e in seguito sarà affascinato dal New Deal di Franklin Roosevelt. Torna nella Torino di Antonio Gramsci e Luigi Einaudi, si avvicina al socialismo di Gaetano Salvemini. Con Sandro Pertini e Carlo Rosselli, lui è uno degli antifascisti che aiutano il leader socialista Filippo Turati a fuggire dall’Italia. Chiama come direttore della sua fabbrica un poeta-ingegnere, Leonardo Sinisgalli. Ha inizio così quel ruolo inedito e irripetibile che ebbe la sua Olivetti: un polo di attrazione di intellettuali che coinvolge scrittori come Ignazio Silone, Franco Fortini, Paolo Volponi, sociologi come Franco Ferrarotti e Luciano Gallino, lo psicanalista Cesare Musatti. Le sue fabbriche, palazzi di uffici e negozi nel dopoguerra saranno disegnati dai migliori architetti del mondo. Diventa editore, tra l’altro dell’Espresso, fa tradurre in italiano John Kenneth Galbraith e Hannah Arendt.
Negli anni Cinquanta, quando l’Italia è la Cina d’Europa — per il dinamismo, la velocità di crescimento ma anche lo sfruttamento — lui crea un’oasi di diritti sociali. Riduce l’orario a parità di salario per arrivare alla settimana di cinque giorni. Garantisce alle lavoratrici nove mesi di congedo maternità col 100 per cento di retribuzione; e la parità salariale con gli uomini. Finanzia un welfare aziendale, dalla scuola alla sanità . Ma avverte il pericolo che «queste istituzioni diventino strumenti di paternalismo», se un’azienda dovesse elargirle come «concessioni a carattere personale ». Perciò il suo sguardo si allarga oltre l’azienda. «Vedevo che ogni problema di fabbrica diventava un problema esterno». Nasce così la sua idea di Comunità , che renda «la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali».
È una sorta di localismo moderno, che vuole rifondare la democrazia dal basso, cominciando da una unità «né troppo grande né troppo piccola, territorialmente definita, concreta». Capisce che lo Stato va rifondato un ingranaggio alla volta. «Era inutile e pericoloso occuparsi della politica nazionale se non si fossero compiute delle minori esperienze nella vita del comune e della provincia, se non si avesse compreso qual era il modo con cui lo Stato esplicava la sua autorità e le sue funzioni nella vita di tutti i giorni per i cittadini. Partendo non già da un vasto e nebuloso programma teorico ma da un esame circostanziato, sperimentale, ufficio per ufficio».
Nella sua carriera industriale colleziona anche successi di mercato e tecnologici. La macchina da scrivere portatile Lettera 22 diventa un oggetto di culto dal 1950. Nel 1952 il Moma di New York celebra la Olivetti come una punta avanzata nel design. Nel 1959 è la prima azienda al mondo a produrre il computer “mainframe” Elea 9000. Nel presentare quel computer, Olivetti ha ancora parole profetiche: «La conoscenza illimitata di dati consente di raggiungere obiettivi che fino a ieri sarebbe stato assurdo proporsi», ma aggiunge che l’industria deve mettere le nuove tecnologie al servizio del «progresso comune, economico, sociale, etico: la tecnica al servizio dell’uomo». Dà l’esempio mettendo i computer a disposizione delle università .
Errore grave sarebbe consegnare Olivetti a un Pantheon di grandi uomini del passato dalla statura irripetibile, dimenticandosi in quale tempo si formò. Lui lo ricordava così: «C’è una crisi di civiltà , c’è una crisi sociale, c’è una crisi politica. L’ingranaggio della società che è stato rotto nell’agosto 1914 non ha mai più funzionato, e indietro non si torna. Come possiamo contribuire a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti?».
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IL LIBRO
Il mondo che nasce di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità , pagg. 144, euro 10,20
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