by Sergio Segio | 9 Aprile 2013 6:27
ROMA — È un indiretto, ma trasparente, paragone tra il 1976 e oggi, quello che fa Giorgio Napolitano onorando il dirigente comunista e amico Gerardo Chiaromonte. Anche allora — ricorda — l’Italia viveva l’incubo di una dura crisi economica, tra «minacce e prove che si chiamavano inflazione e situazione finanziaria fuori controllo», con il peso di una questione morale che già s’imponeva. Certo, in più c’era «l’aggressione terroristica allo Stato democratico come degenerazione ultima dell’estremismo demagogico». Tuttavia, a 37 anni di distanza, il punto politico sembra più o meno lo stesso: per superare l’emergenza bisognerebbe unire le forze, per quanto difficile sia.
In quell’epoca seppe farlo Enrico Berlinguer, per il Pci, impegnandosi «nella scelta e nella gestione di una collaborazione di governo con la Democrazia cristiana dopo decenni di netta opposizione… e ci volle coraggio, per quella scelta di inedita larga intesa e solidarietà ». E ai giorni nostri — viene da chiedersi, partendo dalla rievocazione del presidente — perché non si è in grado di dimostrare altrettanta «visione della politica come responsabilità »? Perché, in nome del bene comune, non si trova la risolutezza di una analoga «grande svolta», che ci consenta di superare il conflitto infinito tra i partiti e di siglare delle indispensabili larghe intese?
Gli interrogativi restano ovviamente senza risposta, nell’aula Zuccari del Senato, dove il capo dello Stato commemora il «compagno» Chiaromonte. Con il quale — rammenta — «l’unico momento in cui non ci si trovò in piena sintonia fu quello della concitata chiusura, da parte del Pci, dell’esperienza della “solidarietà nazionale”: decisione che fu foriera di un arroccamento» più tardi «giudicato fuorviante» da entrambi.
Un messaggio che ha il sapore di un estremo pressing sul Partito democratico e sul suo segretario Pierluigi Bersani, vincitore/perdente al voto del 24-25 febbraio, arroccato sull’azzardatissima strategia di costruire un esecutivo di minoranza, basato su impegni molto aleatori (incassati dopo un assai incerto scouting nel Movimento 5 Stelle) e su mezze promesse (della Lega) di fargli superare con un gioco di presenze-assenze la prova della fiducia in Parlamento.
Lo stallo che tiene in scacco i partiti e lo stesso Napolitano in questi amari giorni di fine mandato, nasce tutto da lì. Da un risultato elettorale bloccato e da una mancanza di «coraggio», che paralizzano il Quirinale e il Paese e che potrebbero far lievitare una deriva di antipolitica in cui si vorrebbe archiviare tutto come si archivia una pratica fastidiosa.
Ed ecco che la lezione del passato torna utile, al presidente, per spiegare che lui e Gerardo Chiaromonte (e per estensione tantissimi altri, di ogni famiglia ideologica) approdarono alla politica «con modestia, con serietà », essendo partiti «da un faticoso e non breve apprendistato di base». Insieme in provincia, nel loro amato Mezzogiorno. Insomma, per lui la politica è e dovrebbe ancora essere un servizio alto e nobile, da vivere «come responsabilità alla quale non ci si può sottrarre e di cui si deve rispondere in primo luogo a se stessi».
Altro che certe sgangheratezze liquidatorie e qualunquiste che sembrano dilagare oggi, mettendo in torsione il sistema. Altro che — avverte ancora — «certe campagne che si vorrebbero moralizzatrici e in realtà si rivelano, nel loro fanatismo, negatrici e distruttive della politica».
Dalla stagione del «compromesso storico» (che non va demonizzato perché la politica è in fondo l’arte del buon compromesso) ai rischi del distacco tra società e rappresentanza, nella logica di Napolitano tutto si tiene. Inutilmente, forse, data l’asprezza del confronto e data l’irremovibile ostinazione del vertice democratico. Vedremo se i due comitati di «saggi», che dovrebbero presentare ad horas l’esito della ricerca di «facilitazione», riusciranno a compiere quello che sembra un miracolo.
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