«Vite travolte di normalizzatori e dissidenti»

by Sergio Segio | 20 Aprile 2013 8:03

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PRAGA. Miroslav Vanek, direttore del Centro per la Storia Orale dell’Accademia delle Scienze ceca, è uno dei più brillanti storici cechi e precursore del metodo della storia orale nei Paesi dell’Europa centro-orientale. Con la sua attenzione alla memoria della «gente comune» oppure dei quadri del partito comunista ha saputo arricchire la riflessione sul periodo del governo del Partito comunista cecoslovacco. Uno dei suoi lavori, Vitezove a porazeni (Vinti e vincitori), ha rappresentato un punto di svolta in quanto per la prima volta raccoglieva sia la memoria dei funzionari normalizzatori del Pcc che dei dissidenti d’allora.
Le vostre ricerche storiografiche coinvolgono narratori provenienti da diversi ambienti sociali. Come viene rappresentata nella loro memoria la Primavera di Praga?
Le nostre ricerche stanno puntando negli ultimi anni soprattutto sui narratori, che all’epoca erano operai, contadini o piccoli funzionari, ossia su coloro, nel cui nome si faceva politica, ma che spesso erano senza la possibilità  d’esprimersi. Rispetto agli anni, in cui le nostre ricerche erano concentrate sugli ex dissidenti o quadri del partito, per i quali la Primavera era un punto di svolta nella vita famigliare e sociale, notiamo, che la memoria sulla Primavera di Praga è meno nitida, spesso la dobbiamo richiamare noi e i narratori non ne parlano spontaneamente. Questo fatto non è determinato da una perdita di memoria, ma dall’attuale sistema politico e sociale, perciò la loro memoria si relazione ed evoca più spesso l’anno 1989, che ha rappresentato un cambiamento radicale nella loro vita e il momento fondativo dell’attuale società . Dall’altra parte la loro sensibilità  è spesso più vicina alle idee di protezione sociale e di solidarietà , che vengono espresse in maniera più accentuata dal 1968 che dal 1989.
Nella loro memoria quindi il 1968 non rappresenta un contrappunto al 1989?
Sicuramente non c’è un’opposizione binaria così manifesta, anche se molti richiamano la speranza, che nel 1968 ci fosse la possibilità  di costruire uno stato più democratico e con forti tutele sociali. Nella loro memoria quindi il 1968 continua a rappresentare il tentativo di percorrere una terza via, quella verso uno socialismo più democratico e ciò è in latente contrapposizione all’interpretazione, che danno del 1989. Inoltre viene anche spesso richiamato un impegno e una vita sociale più collettiva, per cui oggi, in una società  individualizzata, non c’è semplicemente più tempo. In questo senso la Primavera di Praga rappresenta un sospiro sulle alternative smarrite dall’invasione sovietica e sulla situazione attuale.
Per molti intellettuali la Primavera di Praga ha significato un periodo di maggiore libertà  e di partecipazione. Nella memoria delle persone comuni, come le chiama Lei, vengono evocati questi temi?
Tutti gli anni Sessanta vengono ricordati come un fermento di attività  sociale e di impegno collettivo, che raggiunge l’apice nei mesi della Primavera di Praga. I nostri narratori spesso non ricordano un periodo della loro vita, che abbia raggiunto un’intensità  analoga di attività  della società  civile e nel campo della cultura. In questo fermento sociale si coniuga un maggior interesse sia verso la politica istituzionale che verso l’organizzazione della propria vita e della propria comunità  di appartenenza. Si tratta di un attenzione verso i problemi a livello locale, che rimane ancora insuperata nella memoria dei nostri narratori, e di una società  civile, che cresceva dal basso.
Uno dei suoi lavori più noti, i Vitezove a porazeni, si occupa anche dei funzionari del Pcc al tempo della normalizzazione. Come ricordano la Primavera?
Tra i nostri narratori abbiamo avuto sia persone, che durante il 1968 non avevano un’opinione cristallizzata si coloro, che erano contro le riforme d’allora, ritenendo che la Primavera fosse un tentativo controrivoluzionario. Tra questi ci sono alcune storie anche commoventi di funzionari, che volevano combattere contro l’occupazione ma poi finirono per accettarla. Spesso questi funzionari richiamano alcune motivazioni dell’epoca, come quella secondo cui senza l’intervento estero si sarebbe potuto diffondere all’interno del blocco socialista un virus, che lo avrebbe fortemente indebolito. Alcuni altri funzionari nel loro rapporto con il 1968 adottano una strategia per cui in quell’anno gli eventi più importanti riguardavano la sfera privata e famigliare e non quella politica. Ma in qualche modo la Primavera rientrò nella loro vita con il disgelo della fine degli anni Ottanta, quando i quadri del Pcc rimasero disorientati dalla rotta politica di Gorbaciov, che considerarono un ritorno delle riforme del 1968 ma questa volta proveniente dalla porta sovietica. In questo senso fu fondamentale l’anno 1987, quando il cambiamento diventò sempre più pressante e il potere si dovette aprire alle voci provenienti dalla società  ad esempio sul tema dell’ambiente.
Si può dire, che lo spirito della Primavera di Praga fu incarnato dal dissenso, che si sviluppò dopo l’invasione sovietica?
In gran parte è vero e fino al 1989 molte delle riflessioni del dissenso cecoslovacco ruotano interno al 1968 e alle sue idee. Ciò fu dovuto al fatto, che una parte consistente dei dissidenti provenivano dall’ala riformista del Pcc o dal mondo e della cultura. Questa parte del dissenso viveva uno scisma, tra la loro volontà  di costruire una società  socialista o vicina alle idee dell’eurocomunismo e nello stesso momento dissentivano fortemente dalle pratiche del partito. Inoltre allora di fatto non esisteva almeno sul territorio dell’attuale Repubblica ceca un dissenso di destra. Anche i temi come i diritti umani oppure le rivendicazioni di Charta ’77 furono fortemente influenzato dal pensiero e dallo spirito della Primavera.
Una parte importante della sua ricerca storica si è concentrata sulla normalizzazione vista dal basso. Fu veramente un periodo di disillusione?
Per molti il 1968 rappresentò anche il fallimento delle élites nazionali e quelle internazionali, a cui si guardava con una certa speranza. Inoltre alcuni vissero anche il 1938 e il 1939 e si videro ripetere davanti agli occhi la stessa delusione e senso di fallimento. E questi fallimenti furono devastanti per coscienze delle persone.
Nella storiografia ceca fu a lungo dominante il paradigma del totalitarismo. La storia orale ha in qualche modo arricchito la ricerca storica sul periodo 1948-1989?
Sono convinto, che la storia orale rappresenti una democratizzazione nel fare storia, in quanto riporta la memoria e i punti di vista di coloro, che stanno in basso nella società . Arricchisce quindi la produzione storiografica in quanto disturba la polarità  tra vinti e vincitori e porta dei nuovi punti di vista, che non riusciremo a trovare in nessuno degli archivi, né in quelli del potere né in quelli del dissenso. E la storia orale ci ha aiutato anche a capire numerosi eventi e dinamiche sociali, che vengono descritte parzialmente dalle fonti di archivio. Noi cerchiamo di descrivere ed analizzare la vita delle persone in quell’epoca da un punto di vista complessiva e non soltanto tramite il prisma del potere, come può fare il paradigma del totalitarismo

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