Lo spettro di Chà¡vez sul voto nel Paese che rischia il crac
Hugo Chà¡vez è ovunque. Lungo i viali di Caracas su giganteschi manifesti con il suo volto sorridente e il basco militare. In televisione dove vanno in onda programmi speciali di propaganda sui quattordici anni da presidente. Nei giornali, gonfi di pagine di pubblicità di Pdvsa, l’holding statale del petrolio, che rendono omaggio alle «battaglie del comandante invincibile». Nei murales sotto i portici dietro piazza Bolivar, il vecchio centro di Caracas. All’ingresso dei ministeri con foto e pupazzi grandi o piccoli. Sulle magliette rosse dei militanti con lo slogan elettorale: “Chà¡vez te lo giuro, il mio voto è per Maduro”. Nelle piazze dei comizi che iniziano e finiscono con il video dell’ultima volta che i venezuelani lo hanno visto vivo: quella sera di dicembre 2012 quando annunciò che tornava all’Avana per operarsi e affidava a Nicolà¡s Maduro, l’ex ministro degli esteri, il compito di succedergli «se fosse stato necessario». Impossibile sfuggire allo sguardo del comandante che non c’è più ma che regna senza rivali su una campagna elettorale ufficialmente brevissima, appena dieci giorni.
La salma di Chà¡vez è tuttora custodita nella caserma che vide nascere il suo mito con il fallito golpe del 4 febbraio 1992 contro Carlos Andrés Perez, il presidente liberista e corrotto, che tre anni prima aveva lanciato l’esercito nelle favelas per soffocare nel sangue la rivolta popolare. Accanto, c’è già il museo, con la time-line della sua vita sulle pareti, grandi immagini che scendono dal soffitto, frasi, ricordi, oggetti. Duemila visitatori ogni giorno salgono fin quassù sul colle della caserma 4 febbraio. Dal giardino si domina la città e soprattutto il palazzo Miraflores, quello della presidenza, proprio qui sotto. Alle 16,25, l’ora della morte il 5 marzo scorso, un vecchio cannone spara un colpo a salve. Più in basso, siamo ai margini del “23 de enero”, il sobborgo popolare che è stato la culla del movimento chavista, un’improvvisata cappella della Santeria per “Santo Chà¡vez”. Il processo di santificazione pagana del presidente che non c’è più viene compiuto ogni giorno dal successore designato, Nicolà¡s Maduro, che domenica prossima affronta la sfida di ottenere nelle urne la conferma delle sue ultime volontà per trasformarsi nella nuova guida della “rivoluzione bolivariana”. Maduro, ex autista di autobus, ex sindacalista, ex ministro degli esteri, molto vicino a Cuba, il partner ideologico dell’avventura chavista, si definisce “discepolo e figlio” di Chà¡vez. Lo cita migliaia di volte ogni giorno e sostiene di averlo incontrato, dopo la morte, sotto forma di un uccellino, un colibrì che è volato intorno alla sua testa mentre era a Barinas, la città che diede i natali al comandante. Da allora, l’uccellino in versione di plastica, Maduro lo porta sul cappello mentre sullo schermo dietro al palco del comizio scorre un cartone animato con Chà¡vez che arriva in Paradiso e trova ad accoglierlo il Pantheon delle figure mitologiche della sinistra latinoamericana. Ci sono il Che Guevara, Salvador Allende, Eva Peron, Sandino, Bolivar, e infine l’amata nonna Rosa Inés.
Il discorso politico di Maduro è abbastanza elementare. Chiede il voto sulla base dell’appartenenza di classe. Per lui, figlio di operai, che grazie a Chà¡vez sta per diventare presidente. «Non vorrete mica votare per quel borghesuccio che ha sempre avuto tutto dalla vita?», dice. E la folla: «Nooo». «Se votate per me, votate per Chà¡vez, io come voi sono un figlio del popolo». L’altra arma di Maduro è la promessa di portare avanti la politica statalista e assistenzialista promossa da Chà¡vez grazie ai fondi del petrolio. Ma proprio qui sta il problema del futuro della rivoluzione. Gli economisti sostengono che il Venezuela ha usato i dollari del greggio come se fosse una carta di credito, spendendo anche i profitti dei barili che deve ancora estrarre. E il modello non funziona più. Il governo, un mese fa, è già stato costretto a svalutare la moneta, il Bolivar, del 46 per cento. Le riserve, a parte l’oro che Chà¡vez ha fatto rimpatriare via nave dai caveaux in Inghilterra, non ci sono più. Il cash scarseggia. I primi effetti, mentre Maduro ha già promesso un aumento dei salari pari al 40 per cento in tre rate per controbilanciare l’inflazione sempre più alta, si sentono negli ospedali pubblici dove è sempre più difficile fare esami, interventi o analisi e nei supermercati, soprattutto quelli governativi a prezzi scontati, dove mancano farina, zucchero e altri prodotti alimentari di base. «Il Venezuela produce poco e deve importare quasi tutto – spiega l’economista Tamara Herrera – ma da mesi, durante l’agonia di Chà¡vez, lo Stato ha vissuto come in un lungo letargo, le importazioni si sono fermate e ora si rischia il collasso». Grazie alle infinite risorse petrolifere del paese Chà¡vez era convinto di poter comprare tutto e per questo ha distrutto il settore privato, dov’era il nucleo duro dei suoi avversari politici, promuovendo le importazioni massicce ma dissanguando le riserve. L’enorme spesa dello Stato per le politiche sociali e assistenziali ha fatto il resto. E chi verrà dovrà pagare il conto.
Dall’altra parte Capriles denuncia “il regime”, la corruzione dilagante nelle alte sfere del potere, un tasso di criminalità tra i più alti del mondo. Si veste come Maduro, con la tuta da ginnastica del tricolore (rosso, giallo e blu) venezuelano, e propone le stesse politiche redistributive di Chà¡vez ma «gestite meglio, con capacità e competenza, senza ruberie». «In ogni caso, dopo il voto di domenica, questo sarà un altro paese – osserva lo scrittore Fausto Masò – Chà¡vez era convinto di essere l’interprete di una missione storica. Si preoccupava di tutti e aveva l’ambizione planetaria di estendere ovunque fosse possibile la sua egemonia. Cuba, Nicaragua, Argentina, Ecuador, Bolivia. Perfino Londra dove regalò petrolio per gli autobus al sindaco socialista. Ora, i suoi apostoli usano anche la superstizione contro l’opposizione, ma sono molto più piccoli».
Related Articles
A Romney il Michigan E ora il Super-Tuesday
Ma Santorum (a cui non è bastato il voto di tanti democratici) non ammaina bandiera
Due monaci si danno fuoco a Lhasa la protesta tibetana nella città santa
Rivolta nella terra del Dalai Lama, nuovo smacco per Pechino Il dramma al monastero Jokhang il più venerato dai fedeli: 35 vittime in poco più di un annoGli ultimi gesti estremi proprio quando in Cina stanno cambiando i vertici del partito
In Spagna «meno disoccupati». Anzi no
Spagna. Rajoy rivendica, ma la verità è un’altra: più stagionalità e riduzione degli «attivi»