L’isola della spazzatura il Settimo Continente che minaccia il Pacifico

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C’È un settimo continente, ancora più misterioso e inaccessibile dell’Antartide. La sua presenza è evanescente come quella dei territori disegnati a grandi linee sulle carte geografiche del Cinquecento, man mano che arrivavano le prime descrizioni degli esploratori. Per il momento si sa che sta nel Pacifico, tra le Hawaii e la California. Ma le sue dimensioni restano avvolte nella leggenda: c’è chi parla di una superficie come quella del Texas (poco più di due volte l’Italia) e chi lo descrive grande come l’India.
Qualcosa di più si saprà  grazie a una spedizione che partirà  il 20 maggio dalla California per tracciare la prima mappa dell’area. L’ha organizzata Patrick Deixonne, 48 anni, membro della Società  degli esploratori francesi, che già  nel 2009 aveva perlustrato l’area dall’alto, limitandosi a volarci sopra. Perché atterrarci è impossibile: il settimo continente è un continente di plastica, un’isola spazzatura aggregata nel corso dei decenni dal gioco delle correnti, dalla potenza del vortice subtropicale del Nord Pacifico. Mentre la terra incognita inseguita dai grandi navigatori del rinascimento era un sogno, questa appare come un incubo: la materializzazione dei danni prodotti da un solo materiale in poco più di mezzo secolo, il periodo in cui la plastica è diventata un oggetto così comune da risultare invisibile, mimetizzata in migliaia di oggetti e di imballaggi.
Sfuggendo ai radar della nostra attenzione quotidiana, parte dei 300 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno si dà  appuntamento al largo delle coste americane, nella più grande discarica galleggiante del pianeta. Giocattoli, spazzolini, bottiglie, buste, reti, sandali si addensano incontrandosi e scontrandosi, erodendosi lentamente fino a trasformarsi, con il passare dei decenni e dei secoli, in pezzetti sempre più minuti, coriandoli di plastica che vengono scambiati per cibo dagli abitanti
del mare andando così a seminare disastri lungo l’intera catena alimentare.
E infatti Charles Moore, il fondatore della Algalita Marine Research Foundation che ha individuato per primo il mostro che si stava creando in mezzo al mare, nel suo libro  L’Oceano di plastica(pubblicato a gennaio da Feltrinelli) parla di una «spessa zuppa di plastica, una zuppa abbondantemente condita con fiocchi di plastica, con l’aggiunta qua e là  di pezzi di plastica grossi come boe, gomitoli di rete, galleggianti, cassette e altri detriti più consistenti».
«Non è soltanto un danno estetico, si tratta di una minaccia per la vita marina che si fa di anno in anno più grave», ricorda Katrin Schroeder, oceanografa del Cnr di Venezia. «Tartarughe e delfini si impigliano nelle reti abbandonate, che li avvolgono
in una trappola mortale. E poi c’è l’impatto sui pesci e sugli uccelli acquatici che ingeriscono plastica fino ad esserne soffocati. Purtroppo ancora non conosciamo la dimensione esatta di questo fenomeno, servono più informazioni sulle concentrazioni di microplastiche sospese nella colonna d’acqua».
Le Nazioni Unite calcolano che ogni giorno 5 milioni di pezzi di plastica vengono scaricati in mare: per ogni chilometro quadrato di oceano ce ne sono 13 mila. Un’invasione senza confini. Anche nel Santuario dei cetacei, tra Corsica, Costa azzurra e Toscana, secondo uno studio condotto dalla biologa Maria Cristina Fossi e da altri ricercatori dell’università  di Siena, la concentrazione di frammenti di plastica minaccia le balene. Nelle microparticelle sono infatti presenti sostanze chiamate distruttori endocrini che alterano gli ormoni sessuali creando una tendenza all’ermafroditismo capace di mettere in pericolo i cetacei.
Problemi che meriterebbero più attenzione, ma la ricerca sul campo è difficile. La spedizione di Patrick Deixonne era stata organizzata per il maggio del 2012. La goletta con gli strumenti di rilevazione era stata però bloccata in partenza da un guasto alla pompa dell’acqua prodotto da una busta di plastica. Sistemato il problema, nuovo tentativo e nuovo stop: una rete da pesca aveva rotto il timone. Il settimo continente è una conquista dura.


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