LE STORIE INTERROTTE DELLA TORINO OPERAIA

by Sergio Segio | 22 Aprile 2013 6:45

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C’è oggi una Torino industriale che sente tutto il peso della crisi. Una Torino di fabbriche dismesse e operai licenziati, attraversata dalla brutalità  della lotta di classe condotta dai vincitori contro i vinti, dai forti contro i deboli. L’ultimo romanzo di Alessando Perissinotto (Le colpe dei padri, Piemme) ce la racconta attraverso la vicenda della Moosbrugger, una multinazionale che si appresta a delocalizzare i suoi impianti e a chiudere gli stabilimenti inseguendo la logica stringente del mercato.
Il protagonista, Guido Marchisio, è un brillante dirigente, di buona famiglia, intraprendente. Gli è affidato il compito di elaborare le liste a cui attingere per licenziare o mettere in cassa integrazione. E Marchisio si appresta a eseguire con asettica determinazione questo compito non proprio gradevole. Ma il perfetto meccanismo con
cui ha costruito la sua vita si inceppa. Ed è a questo punto che nel romanzo irrompe l’altra Torino, quella degli anni ’70 e della lotta di classe dei vinti contro i vincitori, dei deboli contro i forti. È la Torino degli scontri di piazza, delle occupazioni delle case nel quartiere della Falchera, delle lotte nelle fabbriche, una Torino che le pagine di Perissinotto raccontano con puntualità  ed efficacia, fino alle efferatezze del terrorismo e dei suoi bersagli innocenti, ai 61 operai licenziati alla Fiat nel 1979, presi da una lista che mischiava fiancheggiatori e avanguardie di lotta, alla “marcia dei 40 mila” che nel 1980 segnò la fine di quella stagione.
Guido Marchisio è come sospeso tra queste due Torino, e non solo perché le sue “liste” somigliano a quelle di quarant’anni prima. Del tutto casualmente, infatti, viene a scoprire che in passato, proprio alla Falchera, è vissuto un bambino, Ernesto Bolle, che come lui aveva occhi di colore diverso e un neo sotto quello destro. La sua prima reazione è di rifiuto assoluto della possibilità  stessa di essere Ernesto Bolle. La sua famiglia è quella classica della buona borghesia torinese: il padre è un dirigente Fiat in pensione che ne segue con distratto compiacimento la carriera, la madre ne vive con orgogliosa trepidazione i successi. Ma i suoi veri genitori erano due militanti di sinistra, che avevano partecipato alle lotte alla Falchera ed erano morti schiantandosi in auto inseguiti dalla polizia. Guido, bambino, al momento dell’incidente dormiva sul sedile posteriore; raccolto dai soccoritori, affidato a un Istituto, era stato adottato dai Marchisio.
Nel momento in cui Guido scopre di essere Ernesto le due Torino del romanzo di Perissinotto si intrecciano e quella degli anni ‘70 precipita su quella di oggi. Una frase sfuggita al bar, «ci vorrebbero le Brigate Rosse! », dischiude una sorta di cunicolo temporale che mette in relazione le due epoche. La durezza del conflitto sociale di cui Guido è protagonista ripropone uno scenario tipico del passato. Tornano i picchetti alle porte della fabbrica, i cartelli, le scritte sui muri; la sua Mercedes viene incendiata, imbrattata di letame. Gli sparano con pallottole di vernice che lo umiliano.
Il romanzo si avvia così a un epilogo che lasciamo in sospeso. Resta, il grande pregio del libro di Perissinotto. La politica dell’Italia di oggi ha da tempo rescisso ogni legame con quella degli anni ’70. Ed è stato così anche per il conflitto sociale: gli operai arrampicati sui tetti o sulle gru, sprofondati nei recessi delle miniere, asserragliati ai cancelli, trasmettono oggi una disperazione solitaria, senza nessuna traccia del protagonismo di allora, quasi sepolti dalle macerie di una sconfitta storica che sembra irreversibile. Attraverso la vicenda di Guido/Ernesto e il racconto delle due Torino, Le colpe dei padri ha restituito una continuità  a una storia che finora sembrava spezzata in due.
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IL LIBRO
Le colpe dei padri di Alessandro Perissinotto (Piemme, pagg. 316, euro 17,50)

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