Le parole delle donne, un fuoco contro il silenzio della violenza

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La fiamma si agita, crepita, e il forno potrebbe implodere di parole ingoiate, oppure deflagrare per tutto il dolore immane delle donne del pianeta, o invece diventare altro e trasformarsi: tanto incuneata l’oscurità  tanto profonda la spinta a sollevarsi. Ma perché ciò avvenga è necessario che il vissuto innominabile e rappreso diventi dicibile e sia accolto. Così si è mossa la regista palestinese Abeer Zeibak Haddad, andando in cerca delle donne della sua terra: tra loro la scultrice di cui sopra. Questo è Duma (Dolls), in anteprima italiana nei giorni scorsi a Firenze al Film Middle East now. La storia pregressa, «bambole», appunto, in realtà  burattini mossi a vista in Chocolat , un suo spettacolo portato in turné non senza lotte e resistenze. Così quei volti stranianti che raccontano in scena la violenza subita da bambine e adolescenti, diventano compagni di viaggio in un documentario che inizia come un road movie; alla guida, la regista e accanto a lei una donna, tra le braccia il burattino di un’altra sé e il racconto, lo sconforto per una società  come quella araba (ma non solo), che costringe al segreto. Poi una fase d’interni, dapprima il laboratorio dell’artista di cui si diceva all’inizio,mani che forgiano la creta, una trinità  di vagine «fiorite» e una riflessione su un mondo che ha origine dalle donne per poi espropriarle dal loro corpo. Quindi un’altra donna, il tempo impossibile di una telefonata a colui che ha deviato per sempre la sua vita, il rancore, le parole che non escono, la richiesta di un incontro, infine il pianto da sola, di spalle.
Mentre la macchina affianca, mai invadendo lo spazio del narrato, ma piuttosto scoprendo altro: una distesa di fichi d’india intorno alla casa, il vento tra le foglie di un mandorlo, i frutti ancora chiusi … E continua il racconto, il viso schermato dal vetro di una finestra, le reiterate violenze subite dal padre, la rabbia per il silenzio cieco della madre, a sua volta vittima di un giogo secolare di violenze. E ancora il dirsi di un’altra voce di donna, quasi split screen con «camera oscura» da cui emerge la parola dolente e insieme la visione del mare, libertà  nella luce e onde sul vetro della videocamera come lacrime: la violenza sessuale perpetrata dallo zio fin da quando aveva cinque anni, le sue minacce se lei lo avesse rivelato.
Il tutto attraverso anfratti di visione protetta, rispettosa dei tempi e del dolore di queste donne, dentro e fuori l’immagine. «La società  araba tutela poco le donne che denunciano la violenza e le pone in una posizione di inferiorità », avverte l’avvocata cui quest’ultima si è rivolta. Spesso poi, durante le indagini e il processo, per lo più condotti da uomini, le aspetta il calvario di ricostruzioni estorte con atteggiamento morboso, paradossale capovolgimento di dinamica, tristemente conosciuto anche da noi, che le trasforma in accusate. Anche nel colloquio con lo psicologo, si palesa tutta la solitudine e la morsa sociale in cui chi è oggetto di violenza si ritrova a vivere, fino alla morte interiore o totale. Solo a questo punto, in una manifestazione contro la violenza sulle donne, si aprono spiragli di consapevolezza postuma … e un padre di una ragazza assassinata, si chiede pubblicamente, dove abbiamo sbagliato. Qui, lo sguardo-presenza partecipe di Zeibak Addad si muove tra le manifestanti e le frotte di uomini: alcuni portano la bara di una donna, altri scavano un’ulteriore fossa … un’altra è appena morta. Dunque il cerchio si chiude. La regista ringrazia queste donne per il loro immenso coraggio. Il fuoco della fornace continua a bruciare e a illuminarci.


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