Le incursioni grilline rendono evidente la crisi dei partiti

by Sergio Segio | 17 Aprile 2013 6:43

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È la forza che ha il maggior numero di grandi elettori, grazie anche al premio di maggioranza alla Camera conquistato nel voto di fine febbraio. Ma fa fatica a contenere le spinte centrifughe e le incursioni polemiche di altri partiti decisi ad acuire le difficoltà  di Pier Luigi Bersani. Di fronte, il segretario del Pd non ha soltanto la prospettiva di una possibile lacerazione, se le cose dovessero andare male nella scelta del capo dello Stato.
Davanti a lui si staglia anche il pericolo concreto di perdere la leadership e molti voti alle prossime elezioni politiche. E dunque non si può escludere che nelle decisioni finali pesi la necessità  di puntare al male minore pur di tenere il Pd più compatto possibile intorno a un candidato. A guardare bene, la situazione del partito di Bersani ricorda quella nella quale si trovava il Pdl nel dicembre scorso. Anche allora, la guida di Silvio Berlusconi sembrava in bilico, e il centrodestra sull’orlo della frantumazione. Togliendo l’appoggio al governo tecnico di Mario Monti, invece, e dunque scaricando su palazzo Chigi la propria crisi, il Pdl si ricompattò.
In questo caso, si tratta di Quirinale; e la garanzia che il Pd resti unito non c’é comunque. Ma la tentazione di far scattare un meccanismo simile non appare scongiurata. Quando il capo del movimento 5 Stelle (M5S), Beppe Grillo, sostiene che Bersani «si suicida» se appoggia un candidato «di tutti», tocca un nervo scoperto in alcuni settori della sinistra. Ed evoca una campagna elettorale tesa non a sottolineare la bontà  di una tregua ma l’«inciucio» fra Pd e Pdl. A Grillo non importa che un’intesa possa scongiurare la fine della legislatura e offrire un segnale alla comunità  internazionale.
Anzi, l’obiettivo semmai è opposto. Nell’ottica dello sfascio del sistema, il M5S punta a un’elezione nella quale non esista una regìa di concordia, ma soltanto una scelta da far maturare dopo le prime tre votazioni. In queste, a un candidato è necessario avere due terzi dei voti dei 1007 «grandi elettori», dunque 672; e dunque un accordo fra sinistra e destra è indispensabile. Dalla quarta la percentuale si abbassa alla metà  più uno dei voti, 504. E in quel caso le maggioranze possono cambiare, e il potere di condizionamento dei grillini aumenta.
Sempre che anche i vertici del M5S siano in grado di dare indicazioni rispettate docilmente dai propri parlamentari. Ma è chiaro che non si può imputare a Grillo di fare i propri calcoli. Di nuovo, il problema rimbalza sui partiti che sono usciti dalle urne con una vittoria a metà ; e che stanno valutando quanto sia conveniente, o anche solo possibile, trovare un capo dello Stato in grado di fare uscire la situazione dall’immobilismo e dai veti incrociati in cui si è impantanata. Lo stallo sta esasperando l’inquietudine dell’opinione pubblica e suscitando uno stupore e una perplessità  crescenti a livello europeo. Può darsi che una soluzione condivisa spunti comunque, alla fine. Ma sarebbe l’esito di un pericoloso gioco d’azzardo.

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