Le convulsioni del Pd mettono in forse una soluzione concordata per il Colle

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Ha definito «un errore» il modo in cui il partito lo ha tenuto fuori, e ha smentito qualunque ipotesi di scissione: in questo appoggiato dallo stesso Renzi. Ma l’ombra lunga di un risultato elettorale frustrante pesa sulla leadership del segretario, Pier Luigi Bersani. E minaccia di scaricarsi sui gruppi parlamentari del Pd che dal 18 aprile sceglieranno con le altre forze politiche il nuovo presidente della Repubblica. La strategia di Bersani punta a coinvolgere anche il Pdl di Silvio Berlusconi, la Lega, il premier uscente Mario Monti e, in teoria, il movimento 5 stelle di Beppe Grillo.
Ma si tratta di un’operazione quasi impossibile. Una maggioranza trasversale sul Quirinale lascia prevedere l’autoesclusione dei grillini. Se invece l’intesa con il Pdl dovesse saltare, la prospettiva più verosimile è che possa prendere forma un «cartello» presidenziale della sinistra e dei grillini. Magari per eleggere l’ex presidente della Commissione europea ed ex premier Romano Prodi: sebbene ieri l’interessato abbia fatto sapere che di Quirinale «non me ne sono curato». Sono due scenari agli antipodi. E, di nuovo, attraversano soprattutto il Pd ed i suoi alleati, a cominciare dal Sel di Nichi Vendola, favorevole alla seconda opzione. Il problema di Bersani è che non solo questa formazione di sinistra resiste a un compromesso con il Cavaliere sul capo dello Stato.
Dunque, la possibilità  che si approdi in Parlamento con un nome «condiviso», come si dice, incapace di ottenere abbastanza voti nelle prime due o tre votazioni, non va esclusa. Gli umori antiberlusconiani rimangono radicati e diffusi. E lo scrutinio segreto potrebbe farli emergere, terremotando qualunque strategia di candidature concordate. La domanda che rimane sullo sfondo è se alla fine, invece di eleggere un capo dello Stato pensando ai prossimi sette anni, si manderà  al Quirinale qualcuno in grado di garantire più prosaicamente un governo di minoranza a guida Pd per i prossimi sei mesi; e in una logica di spaccatura e divaricazione del Parlamento e, cosa più insidiosa, dell’Italia.
Anche perché nella fioritura inevitabile delle candidature si tende a smarrire o comunque a far passare in secondo piano un elemento decisivo: l’esigenza di avere un capo dello Stato con reputazione e agganci internazionali solidi. Si tratta di una priorità  resa ancora più urgente dalla presenza di un governo dimissionario e dalla difficoltà  di formare il prossimo. Sia Giorgio Napolitano, sia Monti sono stati referenti rispettati dell’Ue e degli Stati uniti. Un ripiegamento italiano su figure prive di una simile legittimazione potrebbe avere conseguenze serie fin dai prossimi appuntamenti continentali.
Sebbene indirizzate in modo maldestro e a volte irritante, le accuse al nostro Paese di «contagiare» con la propria instabilità  il resto dell’Europa si moltiplicano. Ma le frecciate che alcuni esponenti italiani lanciano in risposta alla Germania alimentano solo un populismo antitedesco. E dimenticano il ruolo-chiave dell’alleanza tra Italia e governi di Berlino, e la situazione difficile nella quale ci troviamo dopo il risultato delle elezioni di febbraio e in piena crisi economica. La scelta del presidente della Repubblica si inserisce su questo sfondo come un tassello decisivo per dare un segnale anche all’estero. L’idea di proiettare anche fin sul Colle l’immagine di un Paese lacerato renderebbe tutto più difficile.


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