Le 1.109 leggi e ordinanze che bloccano L’Aquila
Ma certo che occorrono regole, per la ricostruzione. Perché non c’è occasione, come ricordano decine di episodi emersi dall’inchiesta parlamentare sull’Irpinia o la famigerata e intercettazione («Ridevo stamattina alle tre e mezza dentro il letto») fra costruttori dopo il sisma in Abruzzo del 6 aprile 2009, che offra opportunità di affari e arricchimento quanto un terremoto. E non c’è dubbio che l’attenzione deve essere moltiplicata per il rischio di infiltrazioni mafiose. Un’overdose di norme, commi e codicilli, però, può uccidere quanto il disinteresse. Di più: fa venire il sospetto che drogare le normative possa servire a celare l’avarizia sparagnina dietro l’abbondanza di precetti.
L’ingegnere Gianfranco Ruggeri, che come i suoi colleghi impazzisce da anni avviluppato nel groviglio, ha tenuto il conto: 5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione Civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato, 720 ordinanze del Comune. «Ma devo confessare che nel casino qualche ordinanza municipale potrebbe essermi sfuggita». C’è da capirlo. La sola scheda parametrica messa a punto insieme con l’ultimo decreto di Mario Monti, per dire, è di 139 pagine più allegati.
Secondo la giunta comunale di centrosinistra, da anni in guerra con l’amministrazione regionale di destra («si sono comportati come i capponi di Renzo, si beccavano e si beccavano, senza capire che insieme avrebbero ottenuto dal governo quelle risorse che oggi non ci sono più…», ha detto ad Avvenire Celso Cioni, direttore di Confcommercio) per partire davvero con la ricostruzione del centro storico sarebbero necessari almeno un miliardo l’anno da qui al 2019. Ma per ora, accusa il sindaco Massimo Cialente, non sono arrivati neanche i 985 milioni stanziati dal Cipe a fine dicembre. E il comune: nessuna colpa? Sì, ha risposto di getto a Radio24 il primo cittadino: «Non aver messo le bombe!» E ha aggiunto: «Se non ci danno i soldi per ricostruire, nel 2016 non ci saranno neanche 40 mila abitanti, qui resteranno solo vecchi e dipendenti pubblici: nell’ultimo anno se ne sono andate seimila persone».
Giovani, soprattutto. Andati via perché, ha tuonato nel suo messaggio pasquale l’arcivescovo Giuseppe Molinari, «constatano con immensa amarezza e tanta rabbia che la città non offre loro più nessuna speranza per il futuro». Colpa della crisi, delle casse vuote, dell’Europa che ringhia al primo accenno di squilibri contabili? Anche. Ma il vescovo vede pure dei colpevoli in carne ed ossa: «Sembra che una grande maledizione si sia abbattuta su coloro che abbiamo eletto come rappresentanti del popolo. La maledizione è la perdita di ogni buon senso».
Stretta tra i grovigli dei ponteggi che avvolgono l’intero centro storico e i grovigli delle regole, L’Aquila fatica a rinascere. E assomiglia sempre più ad Atrocla, l’isola partorita dalla fantasia dello scrittore Alexander Moszkowski dove, scrive Anna Ferrari nel «Dizionario dei luoghi immaginari», «ogni aspetto anche minuto della vita quotidiana è regolato da una pletora di leggi, codici e regolamenti di una tale complicazione e contraddittorietà che è impossibile per un abitante dell’isola non infrangere almeno di tanto in tanto la legge». Come puoi posare un mattone, a L’Aquila, senza rischiare di violare un dettaglio di quel delirio di norme?
Una burocrazia da incubo. Immensamente più ammorbante del quadro di leggi con cui fu ricostruito il Friuli. Come dimenticare, per citare un solo documento secondario, il rapporto sul sequestro degli attrezzi usati per le loro proteste dal «Popolo delle Carriole»? «Noi sottoscritti ufficiali di PG… riferiamo di aver proceduto, alle ore 10.20 circa odierne, in Corso Federico II, di fronte al cinema Massimo, al sequestro di quanto in oggetto indicato perché utilizzato dal nominato in oggetto per una manifestazione non preavvisata…». Vale a dire «una carriola in pessimo stato di conservazione con contenitore in ferro di colore blu con legatura in ferro sotto il contenitore e cerchio ruota di colore viola» oltre a «una pala con manico in legno».
Certo, una prima chiesa, San Biagio, è stata restaurata. Ma solo per iniziativa della Fondazione Roma che si affidò all’architetto Salvatore Tringali che già aveva restaurato la Cattedrale di Noto. Tutte le altre, come giustamente accusò Vittorio Sgarbi il giorno dell’inaugurazione, sono ancora lì, ad aspettare, aspettare, aspettare… Gli aquilani vogliono a tutti i costi credere che questa volta sia vero quanto ha detto il direttore abruzzese del ministero dei Beni culturali, Fabrizio Magani. E cioè che sono in arrivo i soldi per aprire 65 cantieri e se tutto va bene «saremo in grado di restituire agli aquilani e a tutti gli italiani 250 monumenti in nove anni». Vogliono credere a lui, a Monti, a Fabrizio Barca cui danno atto di essersi speso molto… Ma non è facile dopo tante delusioni…
La Fiaccolata della Memoria, la processione degli abitanti sfollati dal capoluogo ferito a morte, si è ripetuta ieri sera attraverso un centro storico dove tutto sembra uguale a un anno fa, a due anni fa, a tre anni fa, a quattro anni fa… Tutti con gli occhi fissi. Tutti con il magone. Tutti con lo spirito di Giusi Pitari, la docente che fu tra gli animatori dei cortei delle carriole: «Non voglio più ricordare i bei tempi, li voglio vivere».
Dicono i numeri che le persone ancora assistite sono 22.206, di cui 12.318 vivono nelle C.a.s.e. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) tirate su a tempo di record da Berlusconi (da tempo lontano lontano…), 2.700 in moduli provvisori, 240 in abitazioni del Fondo Immobiliare. Altri 6.686 aquilani rimasti senza un tetto ricevono un «contributo autonoma sistemazione». Altri 259 sono alloggiati in varie strutture ricettive, come i 116 che vivono ancora a Coppito, la grande caserma dove per tre giorni furono accolti Barack Obama e i grandi del G8, per i quali furono spesi 24.420 euro di accappatoi, 26.000 per «60 penne in edizione unica» di Museovivo (433 euro l’una), 22.500 euro per 45 ciotoline portacenere in argento di Bulgari: 500 euro a ciotolina.
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