L’autunno neoliberista dopo l’euforia antiautoritaria

by Sergio Segio | 18 Aprile 2013 8:33

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A distanza di oltre due anni dagli eventi che ci siamo abituati a qualificare come «Primavere arabe» l’affermazione elettorali e non solo dei movimenti islamisti nella regione è spesso considerata come un fallimento o come un’occasione mancata di cambiamento. Jean-Franà§ois Bayart e Irene Bono, organizzatori della conferenza internazionale Trasformazioni politiche e revival religioso nel mondo arabo che si terrà  da oggi al Campus Luigi Einaudi dell’Università  di Torino non condividono questa lettura. Per Jean-Franà§ois Bayart (Cnrs Sciences Po Parigi, attualmente visiting professor a Torino), l’islam non esiste. Esistono solo forze sociali e istituzioni che fanno riferimento alla religione islamica. Gli fa eco Irene Bono (ricercatrice in scienza politica tra Torino e Casablanca), secondo la quale per comprendere le manifestazioni dell’islam in politica occorre prendere in considerazione la dimensione economica e sociale delle trasformazioni in corso.
La conferenza torinese, nata da un partenariato tra il «Reseau Européen d’Analyse des Sociétés Politiques» e il «Torino World Affairs Institute», è dedicata alla dimensione economica e sociale delle «Primavere arabe» e agli innumerevoli significati politici dell’islam. La prospettiva è quella comparata: a partire da ricerche sul campo, Ayse Bugra (Istanbul), Béatrice Hibou (Parigi), Salwa Ismail (Londra), Thomas Hà¼sken (Zurigo), Fariba Adelkhah (Parigi), Laurent Bonnefoy (Parigi), Mohamed Wazif (Casablanca), Zekeria Ould Ahmed Salem (Nouakchott) e Mohamed Tozy (Aix-en-Provence e Casablanca) analizzeranno le trasformazioni politiche in atto e la varietà  dei significati che l’islam può avere (e non avere). L’interesse non è soltanto quello di riflettere sulle «trasformazioni degli altri». I contributi di Stefano Musso, Marco Buttino, Simona Taliani e Alfio Mastropaolo vogliono invece riportare i termini della questione al di fuori del mondo arabo-musulmano.
In che termini possiamo parlare di Primavere arabe?
L’espressione rinvia alle Primavere dei popoli del 1848. L’analogia si può ritenere fondata per tre ragioni. In primo luogo, la primavera si declina al plurale, anche se vi sono evidenti richiami tra una situazione e l’altra. Il 1848 in Francia non ha molto a che vedere con il Risorgimento italiano. Proprio come la caduta di Ben Ali in Tunisia e quella di Mubarak in Egitto, per non parlare delle guerre civili in Libia e in Siria. Il riferimento al 1848 invita anche a considerare le trasformazioni politiche e la contestazione sociale su due piani distinti. A Parigi, il capovolgimento della monarchia di Luglio è sfociato nella repressione del movimento operaio. In Tunisia, in Egitto, in Marocco, la questione sociale alimenta una forte mobilitazione.
Inoltre, come il 1848 ha portato con sé il doppio trionfo dell’idea di nazione e di un capitalismo che diventava globalizzato attraverso il libero scambio, la ferrovia e il telegrafo, le Primavere arabe dimostrano che non vi è contraddizione tra lo stato nazione e la globalizzazione. Tanto i movimenti quanto i partiti islamisti che sono emersi privilegiano infatti lo Stato nazione rispetto alla Umma, la comunità  dei credenti. Nel caso di Hezbollah o di Hamas i partiti islamisti sono fortemente nazionalisti. Le società  arabo-musulmane sono spesso caratterizzate da politiche neoliberiste, come tutte le società  occidentali, e i movimenti islamisti parlano spesso di un «islam di mercato». Basti pensare alle ricette per combattere la disoccupazione giovanile diffuse nella regione, che puntano sul sostegno all’auto-imprenditoria rinunciando a politiche attive per la creazione di nuova occupazione.
Si può sostenere che gli islamisti siano i principali vincitori delle Primavere arabe?
Ogni paese è un caso a sé. Va precisato che Al-Qaida ha subito una grande sconfitta nelle Primavere arabe: non ha giocato alcun ruolo nei sollevamenti del 2011, e il suo ritorno in auge in Mali, di carattere più militare che politico, è un effetto collaterale dell’intervento Nato in Libia. I partiti islamisti hanno vinto le elezioni in Tunisia e in Egitto senza che i movimenti islamici avessero avuto un ruolo di rilievo nella contestazione popolare. In Marocco è successo il contrario. Il peso degli islamisti sembra importante in Siria, ma di minor rilievo in Libia. Se prendiamo i paesi dove gli islamisti hanno vinto le elezioni, si è acuita la divisione tra un islamismo pragmatico di governo e una corrente fondamentalista di cui i movimenti salafisti sono i principali interpreti. La divisione tocca anche i salafiti, spaccati tra componenti quietiste e correnti votate al jihad armato, a loro volta divise tra chi vorrebbe attaccare l’Occidente e chi attacca gli islamisti al governo. Questo è lo scenario in Tunisia e in Egitto.
In ogni caso, i partiti islamisti, che godono di una legittimità  democratica rilevante dovuta alla repressione subita per decenni, forniscono una risposta conservatrice alla mobilitazione rivoluzionaria, conciliando l’aspirazione al cambiamento a quella alla restaurazione dell’ordine. Rappresentano cioè una via di uscita da forme secolari di autoritarismo.
Le Primavere arabe non sono dunque riuscite a «voltare pagina»?
Le trasformazioni in corso vanno certamente prese sul serio, ma occorre andare oltre la costruzione ideologica del momento rivoluzionario. L’assetto politico emerso dalle Primavere arabe esprime continuità  con l’egemonia neoliberale che ha condotto alle crisi che le hanno provocate. I Fratelli musulmani in Egitto, Ennahda in Tunisia, il Pjd in Marocco sono partiti economicamente liberali. Nel 2011 si è parlato troppo dei social network, e troppo poco della tradizione di contestazione di cui le Primavere arabe sono figlie: la contestazione sindacale in Tunisia e in Egitto, le manifestazioni scoppiate in seguito all’assassinio di Hariri in Libano, o quelle per il pane represse nel sangue all’epoca dell’aggiustamento strutturale. Le Primavere arabe sono infine un momento particolare del processo di lunga durata che porta alla formazione degli stati. Un processo frequentemente asimmetrico come lo è stato in Italia, a profitto del Piemonte e del nord e a detrimento del Mezzogiorno. La perpetuazione o la rimessa in discussione di queste asimmetrie, come sta avvenendo in Tunisia e in Egitto, è una delle sfide poste dalle trasformazioni in corso.
Al di là  delle trasformazioni politiche, la questione essenziale è la questione sociale emersa sullo sfondo della contestazione. Resta da sapere se troverà  una risposta alternativa a quella dell’aggravamento della subalternità  e della diseguaglianza. Senza prendere in conto la singolarità  delle situazioni particolari, in un arco storico di più ampio respiro, non riusciremo a leggere le specificità  delle diverse traiettorie nazionali.

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