LA SPIA CHE VENNE DAL MARE DALMATA

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Discendente di armatori, il senzapatria Peter Jarkovich ha ripreso il suo nome originale perché sa di essere al tramonto, sente il richiamo delle radici. Incapace di servire fino in fondo un solo padrone, sacrificarsi per una sola ideologia, restare fedele a un solo amore, ora vorrebbe tornare ad essere se stesso.
Ma può un’ex spia arruolata dai servizi segreti sovietici permettersi d’essere sentimentale? La sua è piuttosto una contemplazione della vita con occhio asciutto e distaccato. Peter Jarkovich non rinnega le sue giravolte e i trucchi: come rendendosi conto che una vita da cospiratore consente di cambiare pelle, considera congiure e delitti alla stregua di battesimi ideologici, da cui ogni volta uscire purificati.
Ed eccolo, il nostro novantenne, intento a gustare muÅ¡oli e polpi in sugo di paprika, avvolto nel fumo di un sigaro churchilliano; qualcosa gli traspare nello sguardo, un’ultima scintilla di concupiscenza carnale accesa dalla giovane Delkica, domestica che per lui sa di «latte, bucato e iodio marino». Finalmente le sue mani si dispongono a sfogliare l’album di famiglia, le scene salienti del suo passato: arruolamento a Vienna, addestramento a Mosca, prima missione terroristica a Zagabria, successive ambigue destinazioni internazionali.
Da qui in poi, La distrazione di Enzo Bettiza (Mondadori, pp. 495, 20) sfugge a ogni parallelo cinematografico e si dispiega autonomamente come un grande romanzo mitteleuropeo, sprezzante dell’attualità  e dei tic contemporanei. Sono gli stessi temi e ambienti già  affrontati da Bettiza nel conturbante e fluviale affresco sui Fantasmi di Mosca, qui però colti soggettivamente dal protagonista, sicché eventi storici e tragedia sovietica appaiono piuttosto sullo sfondo, mentre tendono a prevalere atmosfere e sentimenti.
E qui occorre spiegare quel che si nasconde nel titolo ingannevole, La distrazione: non solo un omaggio al caso, che pure contribuisce a determinare le svolte nella vita di Jarkovich; la distrazione è una malattia dell’anima, uno sprofondare periodico nell’indifferenza e nell’assenza, come se l’organismo del protagonista staccasse spontaneamente la corrente per prevenire un sovraccarico di emozioni. E c’è un’ulteriore verità : Jarkovich paga il prezzo della sua incompletezza, il fatto cioè d’essere, in quanto dalmata, senza patria ufficiale e privo di caratteristiche nazionali definite; non a caso durante il romanzo si esprime indifferentemente in italiano, triestino, tedesco, serbocroato e russo, a volte mescolando tutte queste lingue. E l’alter ego demoniaco di Jarkovich, l’istruttore Hamok, mostra i segni della sua stessa malattia autodistruttiva, ormai all’ultimo stadio: il corpo gli si consuma, sparisce nelle pieghe del vestito, le sua personalità  «liquida», prensile, capace di adattarsi a tutte le situazioni che la devozione leninista prescrive, sembra ridursi a pura ombra.
Che nel personaggio di Jarkovich, nel suo passato di patrizio dalmata incapace di adattarsi a un solo destino, ci sia qualcosa dello stesso Enzo Bettiza, non può essere messo in dubbio. Persino la figura dello zio cantante d’opera, al centro della trama terroristica che attraversa il romanzo, allude all’album di famiglia dell’autore. E i vari «amori ancillari» vissuti da Petar, con la puttanesca Olga, l’ambigua Almira (la scena erotica di cui è protagonista è un pezzo di assoluta bravura), la suicida Ines, sono sì pietrificati nel ricordo, ma suonano anche come sforzi disperati del protagonista per contrapporre un che di vitale e corporeo alle astrazioni dell’ideologia.
Romanzo a tratti stupefacente, quasi narcotico nei dialoghi di idee che rifiutano qualsiasi naturalismo, La distrazione si staglia come un’opera altra rispetto alle consuetudini letterarie. L’autore, «stambecco» in un paese abituato alle transumanze e alle greggi, si impone alle «fugaci scadenze temporali della sopravvivenza».


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