La scelta di Monti: niente incarichi di partito

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Il nome del Professore scomparirà  dal simbolo Il suo nome non sarà  nello statuto e nemmeno nel simbolo del movimento, che infatti d’ora in avanti si chiamerà  solo Scelta civica (senza Mario Monti).
La scelta del Professore sarà  distinta anche se non ancora distante dalla forza che «ho ispirato e fondato». Rimarrà  senatore a vita e farà  il «padre nobile» della lista, ma senza aver più un «rapporto organico» con il gruppo dirigente, siccome «non mi sento un leader di partito, non è il mio mestiere». Così ha annunciato.
Il Professore che era salito in politica, ora vuole scendere dal golgota dove sente di esser stato messo ingiustamente da molti, quasi da tutti: dai partiti «che mi avevano chiamato in soccorso» nell’inverno del 2011, dalle forze sociali — Confindustria e sindacati — che oggi andranno «squallidamente a braccetto senza però indicare come uscire dalla crisi», e persino dai suoi stessi alleati, da quei compagni di avventura che «mi implorarono di fare il capo della coalizione alle elezioni e adesso dicono di aver donato il sangue per me». Raccontano che l’intervista di Pier Ferdinando Casini al Corriere l’abbia lasciato di sale, «sono rimasto allibito», e l’abbia convinto a un passo di lato che somiglia molto a un passo indietro.
Formalmente dice di non essersi disamorato, «non è disamore, non considero terminata l’esperienza», anzi Scelta civica — nel quadro disastrato di un’Italia tripolare — «resta una forza necessaria alla tenuta europeista del Paese». Epperò la prossima settimana i parlamentari che sono stati eletti con il suo movimento, leggeranno nello statuto la conferma ufficiale di quanto già  Monti aveva detto loro a voce: la sua assenza dagli incarichi e la cancellazione del suo nome dal simbolo sono il prodotto di una sconfitta iniziata nelle urne e che il Professore fatica a capire, interpretandola come una forma di ingratitudine: «Stiamo uscendo dalla procedura di deficit europeo, i conti pubblici sono in ordine…».
Perciò non solo è turbato dal fatto che non siano stati riconosciuti i meriti del suo governo, non comprende nemmeno l’accanimento, il fatto di esser diventato «il capro espiatorio di tutto e di tutti», sebbene questo sia l’effetto di un Paese stremato dalle tasse e dalla recessione, ma soprattutto la conseguenza della sua precedente scelta: quella di entrare nell’agone politico, dove nulla viene risparmiato a nessuno, figurarsi a chi — entrato nel Palazzo da super partes — ha deciso di farsi parte e di sfidare quanti lo avevano appoggiato. Gli errori di grammatica politica in campagna elettorale e poi quelli di ortografia istituzionale all’inizio della legislatura hanno determinato la reazione, fuori e dentro il suo stesso movimento. Per esempio, quando salì da Napolitano per chiedergli di lasciare Palazzo Chigi in modo da trasferirsi a Palazzo Madama, non solo si attirò le critiche del capo dello Stato, ma anche l’ira di chi — come Lorenzo Dellai — sperava di conquistare la presidenza della Camera in quota Scelta civica, e l’ironia di chi — come Casini — si aggirava per il Senato dicendo: «Non chiedete a me di strategie, io non conto più nulla». Stizzito per le tensioni alla riunione dei gruppi parlamentari, Monti perse per la prima volta il suo aplomb: «Posso andarmene anche domani mattina, non resto qui a fare il vostro zimbello».
Emotivamente provato, si ripetè alla Camera, nelle vesti di premier, davanti agli attacchi di chi gli aveva dato fino a pochi mesi prima la fiducia: «Non vedo l’ora che finisca tutto». E dato che non può ancora farlo con il governo, ha iniziato con il partito, nonostante Mario Mauro gli abbia chiesto di restare. L’ex berlusconiano che prima delle urne pronosticava di sostituire il Pdl con Scelta civica nel Ppe, giorni fa ha pregato Monti, «non mollare, o almeno aspetta un paio di mesi. Traghettaci prima verso l’assemblea costituente del partito». Niente da fare.
Così la prossima settimana lo scontro interno diverrà  pubblico alla vigilia delle Amministrative, dove non si sa cosa fare. Sarà  l’anticamera del divorzio? Già  oggi d’altronde i cofondatori del movimento vivono da separati in casa: da una parte Andrea Riccardi, che mira a trasformare il movimento in un partitino cattolico; dall’altra Italia Futura che ambisce invece ad approdare nella famiglia liberale europea, e che mentre attende di capire quali saranno le mosse di Matteo Renzi, rilegge i dati delle elezioni politiche, il peggior risultato ottenuto a Roma, proprio nel quartiere simbolo di Trastevere dov’è la sede della Comunità  di Sant’Egidio. In mezzo c’è l’Udc, che in vista delle votazioni per il Quirinale riunirà  i propri grandi elettori, senza montiani. In fondo, senza Monti, i montiani non ci sono più.


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