La rivolta di una generazione

by Sergio Segio | 19 Aprile 2013 8:46

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Quello di grande elettore del prossimo capo dello Stato, l’altro di premier del possibile governo di larghe intese, il terzo di un congresso di partito parallelo. Ebbene, ha perso su tutta la linea. Da ieri pomeriggio è chiaro che non sarà  Pierluigi Bersani a scegliere il presidente della Repubblica, non sarà  mai premier di nessun governo o governissimo e già  non è più lui, di fatto, il leader del Partito democratico. Forse non esiste neppure più un Pd, a giudicare dal voto sparso in cinque o sei tronconi. Spetterà  al successore di Bersani rimettere insieme i pezzi del partito, trasformato da una scelta insensata nel più grande gruppo misto nella storia del Parlamento italiano.
Ora si dirà  che è stata questa o quella corrente ad aver affondato il progetto di Bersani. Si contano i renziani e i prodiani, s’indaga sulla fedeltà  dei veltroniani e perfino dei dalemiani, come si sarebbe fatto nella Prima Repubblica con le correnti democristiane. Ma è una falsa prospettiva. La verità  è che nel Pd c’è stata una gigantesca rivolta generazionale. Con in prima fila proprio molti giovani portati in Parlamento da Bersani.
Non i giovani turchi di Fassina, che si erano già  allineati. I giovani e basta, in maggioranza donne. «I giovani del Pd stanno con noi», aveva detto Beppe Grillo alla vigilia, a ragione. L’età  media dei parlamentari del Pd è più o meno quella del Paese, un po’ sopra i 45 anni, e quello è stato lo spartiacque. Sotto i 45 anni quasi nessuno, al di là  delle correnti di appartenenza, ha seguito le indicazioni di inciucio della leadership e la scelta di Marini, vista come un arroccamento della nomenclatura, una strada senza futuro. Un suicidio assistito. Per giunta, assistito da Silvio Berlusconi. Si può essere cinici e intelligenti e astuti. A volte la sinistra italiana lo è stata. Per esempio, ai tempi della Bicamerale di Massimo D’Alema. Ma cinici, ostinati e dilettanti no. In ogni caso, i giovani del Pd non sono nessuna delle tre.
Fine corsa di Bersani, dunque. Per quanto, probabilmente fosse finita molto prima. In politica, come nel cinema e nella vita, la fine reale della storia non sempre coincide con l’ultimo atto. Nel caso di Bersani, i titoli di coda del suo film di leader erano già  scorsi dopo la vittoria delle primarie. Da allora in poi il segretario non ne ha più azzeccata una. Una campagna elettorale grigia e moscia, un dopo elezioni da temporeggiatore confuso, infine la catastrofe di questi giorni. Gli dei accecano coloro che vogliono perdere, ricordava ieri il pindarico Nichi Vendola. Così è andata. Accecato dall’insuccesso, che dà  sempre molto alla testa, Bersani non ha visto quanto si muoveva nella società  italiana, nel cuore del popolo del centrosinistra, negli stessi uomini e donne che lui aveva fatto eleggere. Incapace a lungo di decidere, ha scelto alla fine da solo e contro tutti, imboccando alla massima velocità  una strada senza uscita, fino all’inevitabile schianto.
Ora al centrosinistra, o quanto ne rimane, restano soltanto due possibilità  di sopravvivenza. Andare in ginocchio dall’unico che potrebbe rimetterne insieme i cocci. L’unico candidato presidente che avrebbe un senso agli occhi del mondo, ammesso che all’Italia interessi ancora farne parte: Romano Prodi. Oppure riversare il voto su quel gran galantuomo di Stefano Rodotà , un simbolo di che cosa la sinistra italiana potrebbe o avrebbe dovuto essere, ma accettando di capitolare di fronte alla superiore intelligenza politica di un ex comico. La terza via, perseverare diabolicamente nel patto con Berlusconi, con il povero e incolpevole Marini o un altro, a questo punto significa l’estinzione.

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