La rivolta contro Big Pharma
La salute non ha prezzo. E i giganti della farmaceutica, dopo aver macinato profitti vendendo pillole e sciroppi (spesso a peso d’oro) ai ricchi del mondo, rischiano di vivere il loro Vietnam in quello che, ironia della sorte, doveva essere il nuovo Eldorado del farmaco: i paesi emergenti e quelli del Terzo mondo. Il via libera dell’India all’anti-cancro low-cost che farà concorrenza al Glivec della Novartis – prezzo 175 euro al mese contro i 2.600 del rivale “griffato” – è solo l’ultimo episodio. Davide si è ribellato a Golia. E dall’Indonesia alle Filippine, dal Brasile alla Thailandia fino all’Argentina, l’ex-Terzo Mondo ha ribaltato la logica: la salute, è vero, non ha prezzo. E visto che milioni di cittadini di questi paesi non hanno i soldi per pagare le medicine salva-vita (il 40% degli indiani vive con meno di 1,25 dollari al giorno) a metterceli d’ora in poi dovrà essere Big Pharma.
Asuon di sconti o rinunciando ai suoi preziosissimi brevetti. Con le buone o, come succede sempre più spesso, con le cattive.
Le regole del gioco
La questione etica che sta dietro a questo braccio di ferro, vecchia come il capitalismo, è semplice. L’industria – che sostiene di spendere circa 60 miliardi l’anno nella ricerca di nuove molecole – pretende che i suoi investimenti diano profitti. I paesi più poveri (o gli ex-poveri) – supportati da decine di Ong – sventolano la bandiera del diritto alla salute. Quella legge non scritta secondo cui – per dirla con Silvio Garattini, presidente dell’Istituto Mario Negri – «non si può negare una medicina fondamentale per ragioni di prezzo».
Come far convivere queste due esigenze opposte? Il mondo ha provato a dare una risposta con la Dichiarazione di Doha: i trattati del libero scambio del Wto riconoscono all’industria farmaceutica 20 anni di brevetto per i principi attivi che escono dai suoi laboratori di ricerca. Ma in casi particolari, nel nome della “difesa della salute pubblica” è consentito a singoli stati derogare a questa norma garantendo licenze per produrre farmaci-fotocopia in versione low-cost. Un diritto fatto valere con successo dal Sudafrica nel 2001 per fronteggiare l’Aids e persino dagli Stati Uniti quando lo stesso anno, in piena emergenza antrace, hanno minacciato la Bayer di dribblare il brevetto sul Ciproflaxin. Ottenendo dai tedeschi un super-sconto sulle forniture.
Chi vince e chi perde Il quadro di regole scritto dal Wto ha dato però risultati in chiaroscuro.
Certo c’è stato qualche caso – come ad esempio quello dei farmaci per l’Aids – dove la “concertazione” tra aziende e paladini del diritto alle cure ha portato risultati importanti: l’Unitaid, nata sotto l’egida dell’Onu, ha ottenuto sconti fino all’80% sugli anti-Hiv da girare poi al Terzo Mondo («segno di come i prezzi di listino siano spropositati», dice Garattini).
A far davvero bingo però è stata Big Pharma: le primi cinque aziende del settore hanno guadagnato nel 2012 oltre 50 miliardi di dollari, qualcosa come 136 milioni al giorno. I colossi Usa hanno in cassa 100 miliardi di liquidità e Novartis, prima dello smacco di New Delhi, ha gratificato senza batter ciglio il suo presidente dimissionario Daniel Vasella con una buonuscita (rifiutata dal manager) da 60 milioni. L’attività di lobby, 100 milioni di spesa l’anno solo negli Usa secondo i dati del Center for public integrity, ha difeso bene lo scudo dei brevetti. Di più: molte aziende grazie a operazioni di banale “alchimia chimica” – dicono i critici – hanno ottenuto l’estensione dei monopoli su «medicine di cui c’è in realtà un bisogno disperato per i pazienti più poveri» come dice Unni Karunakara, presidente di Medici senza frontiere.
«La verità è che inventare un farmaco ci costa tantissimo – replica Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria –. Oltre un miliardo di euro. E uno solo su 10 arriva sul mercato. Il brevetto è il paracadute che ci consente di continuare a scoprirne di nuovi e il mondo ne ha bisogno come il pane, visto che il 90% delle medicine è prodotto da privati».
La “guerra dei poveri”
Il vento però sembra ora essere girato. Brasile, India e Cina hanno iniziato a mettere in piedi una fiorente industria di farmaci low-cost, i cosiddetti generici, che costano
un decimo degli “originali” di cui è scaduto il brevetto. Le Ong hanno imparato a muoversi tra i labirinti legali dei trattati sul libero commercio. E per Big Pharma sono iniziati i guai. A muovere le acque sono stati Brasile e Thailandia minacciando di concedere licenze straordinarie ai loro produttori per combattere il carofarmaci dell’Aids. Portando a casa buoni risultati: la Abbott, ad esempio, è stata costretta dalla sera alla mattina a dimezzare da 2.200 dollari a mille il prezzo di una dose annuale del suo Kaletra a Bangkok.
I primi successi hanno fatto scuola: Susilo Bambang Yudhoyono, presidente dell’Indonesia, ha appena approvato sette nuove licenze per bypassare i brevetti farmaceutici in caso di Aids (solo 23mila dei 70mila malati di Hiv a Jakarta possono permettersi le cure di cui hanno bisogno). Idem le Filippine. L’Argentina ha varato un giro di vite sul rilascio di nuovi brevetti. E la sentenza indiana contro Novartis ha alzato ulteriormente l’asticella per Big Pharma negando in sostanza l’allungamento di un brevetto perchè il nuovo anti-cancro della Novartis era solo una copia quasi identica al suo predecessore. «La soluzione è il dialogo – dice conciliante Scaccabarozzi – L’industria non va demonizzata. Il problema dell’accesso ai farmaci per le nazioni più povere c’è e molte aziende, ad esempio, hanno rinunciato ai loro brevetti per dare una mano ai paesi africani».
I timori di Big Pharma Ai piani alti di Big Pharma, però, la rivolta di Davide contro Golia ha fatto scattare l’allarme rosso. Tra oggi e il 2016 scadranno brevetti su medicine che generano 200 miliardi di ricavi, le vere galline dalle uova d’oro dei loro conti. India e Cina – le nuove regine dei farmaci low cost – forniscono da sole già l’80% dei principi attivi utilizzati poi dai giganti di settore negli Usa. E i generici (l’unico prodotto alla portata dei malati dei paesi più poveri, non a caso grandi clienti della farmaceutica a basso costo di Nuova Delhi) arriveranno a rappresentare il 65% dei ricavi nelle nazioni emergenti.
«La decisione della Corte suprema indiana è una sconfitta per i malati e Novartis sarà cauta nei suoi investimenti in quest’area», ha detto a caldo Ranjiit Shahani, numero uno dell’azienda svizzera nel subcontinente. Peccato che il mondo stia cambiando. E che con i bilanci sanitari dei paesi più ricchi sotto pressione, nessuno dei giganti della farmaceutica possa davvero permettersi di snobbare, malgrado le sberle legali di questi giorni, l’Eldorado di Bric e dintorni che da oggi al 2016 saliranno dal 20 al 30% del mercato della salute mondiale.
«L’arroganza delle multinazionali » – copyright di Garattini – si trasformerà con realismo in quel «negoziato con tutti i singoli governi » auspicato da Scaccabarozzi. Tradotto in soldoni, Big Pharma modererà le sue pretese. E «molti malati dei paesi più poveri – come ha commentato Leena Menghaney, legale di Medici senza Frontiere dopo la sentenza indiana – potranno davvero dormire in futuro sonni più sereni».
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