La resa dei Partiti al Presidenzialismo

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Il tabù era già  crollato. Il presidenzialismo (e anche il semipresidenzialismo, purché con l’elezione diretta del presidente della Repubblica) era già  stato «sdoganato». La paralisi istituzionale lo ha riportato in auge. Nel lavoro dei «saggi» non viene escluso. Si formano già  comitati per la sua introduzione nel sistema italiano, a cominciare da quello promosso da uno dei protagonisti dei referendum elettorali, Giovanni Guzzetta. Matteo Renzi parla esplicitamente dell’elezione diretta del «sindaco d’Italia». Berlusconi lo sottoscriverebbe subito. Un tempo era un concetto «impresentabile», una parola impronunciabile. Ma il presidenzialismo rientra nel cuore della discussione politica.
Le riforme istituzionali, si sa, sono la tela di Penelope che i partiti distruggono per inerzia, sciatteria e noncuranza. Ma stavolta è cambiata la percezione psicologica dell’elezione diretta del capo dello Stato. In queste settimane si sono formati gruppi a sostegno delle più varie candidature. Ci sono i sondaggi che diffondono la sensazione che i cittadini possono contare sulla nomina del vertice dello Stato. Nella Rete impazza il toto-presidente. L’idea che si possa votare direttamente il presidente della Repubblica diventa una tentazione fortissima in un mondo in cui il Web organizza gruppi d’opinione e fa saltare le mediazioni della politica tradizionale, in primis i partiti. E infatti sono sempre stati i grandi partiti strutturati a vedere nel presidenzialismo un pericolo «plebiscitario», cioè la rottura di ogni intermediazione, lo sbriciolamento dei canali che permettevano un interscambio tra la classe dirigente e un popolo non atomizzato. È nella crisi dei partiti, della «Repubblica dei partiti», che si fa strada la tentazione presidenzialista. Partitocrazia contro presidenzialismo: è attorno a questi due poli che si è condensata la contrapposizione tra due principi che trasmettono due diverse idee della politica e della decisione politica. Solo che la «partitocrazia» aveva molto seguito, permeava la cultura dominante, orientava i soggetti politici più forti, dalla Dc al Pci. Mentre sui seguaci del presidenzialismo gravavano i più atroci sospetti, come se fossero degli eversori, apostoli di una soluzione autoritaria. Prima che si rompesse il tabù, in Italia, l’elezione diretta del capo dello Stato veniva quasi equiparato a una forma velata di cripto-fascismo.
E infatti i Padri costituenti, imprigionati dal «complesso del tiranno», sottolinearono nella nostra Costituzione il ruolo dei partiti e del Parlamento, l’opposto del presidenzialismo, fotografia di un potere troppo forte, con pochi contrappesi, senza mediazioni fra il popolo e il suo Capo. Insomma fotografia di qualcosa di molto simile al fascismo appena sconfitto nella rovina della Seconda guerra mondiale. I fautori del presidenzialismo, sedotti dal modello americano, non superarono una presenza minoritaria. Piero Calamandrei e Leo Valiani, sulla cui fedeltà  ai valori della democrazia non c’era nulla da eccepire, testimoniarono la loro preferenza presidenzialista ma senza insistere troppo. Nel pensiero costituzionale, un solo studioso del diritto, Giuseppe Maranini, avversò la soluzione «partitocratica» e condusse una battaglia già  persa nel nome del presidenzialismo. La partita sembrava chiusa, ma l’ostilità  veemente contro il presidenzialismo si riaccese in forme tumultuose con la svolta presidenzialista impressa da Charles de Gaulle in Francia.
Ma anche in Francia, malgrado il tracollo dei partiti, il gollismo presidenzialista venne liquidato dalla sinistra come la nuova incarnazione del fascismo. Proprio de Gaulle, l’uomo che salvò l’onore della Francia chiamando da Londra il suo popolo alla riscossa mentre i cingolati tedeschi calpestavano Parigi e gli stessi comunisti rendevanoonore alle clausole del patto Molotov-Ribbentrop, proprio lui fu tacciato di essere un «fascista». Alla fine il presidenzialismo gollista, metabolizzato in Francia, fu però trattato in Italia come qualcosa di orribile e di antidemocratico, fino a definire golpista e connivente con una nuova forma di «fascismo» chiunque proponesse una Repubblica presidenziale sul modello gollista. Certo, non aiutava alla distensione dei giudizi il fatto che il Movimento Sociale fosse l’unico partito ad agitare la bandiera del presidenzialismo. Ma divenne «golpista» un repubblicano, un democratico storico come Randolfo Pacciardi, un antifascista che aveva combattuto in Spagna a fianco di André Malraux. E negli anni Settanta anche Bettino Craxi, che aveva immaginato la sua «Grande Riforma» con una forte caratura presidenzialista venne sospettato di coltivare inconfessabili pulsioni autoritarie. Nel Pci cominciarono a odiare Craxi anche per questo. Il presidenzialismo era ancora un potente tabù. Chiunque gli si avvicinasse era destinato a entrare dentro un recinto infetto, nel campo della cospirazione democratica. Fino a quando il collasso della Prima Repubblica, della «Repubblica dei partiti» come l’aveva ribattezzata Pietro Scoppola, non rilanciò la tentazione presidenzialista.
Non se n’è fatto nulla, ma solo perché non s’è fatto nulla delle riforme istituzionali. Per fare queste riforme venne istituita una Commissione Bicamerale ad hoc, presieduta da Massimo D’Alema, con il sostegno di Berlusconi. La sinistra era a favore del cosiddetto «premierato forte», la destra di Berlusconi e Fini del semipresidenzialismo (il presidenzialismo puro, quello all’americana, era appannaggio solo della pattuglia radicale di Pannella, fautrice del bipartitismo perfetto). Il nulla di fatto di quella commissione fu totale, trascinando nell’inconcludenza un intero ciclo politico. Ma l’idea di «rendere le istituzioni più forti dei partiti», come ha scritto un presidenzialista della primissima ora come Giorgio Rebuffa, ha fatto breccia. E ora, con la crisi verticale dei partiti e con il Web scatenato nell’indicazione del proprio presidente ideale, il profilo di un possibile presidenzialismo si fa più netto. Il tabù viene definitivamente infranto.


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