La pastorale americana

by Sergio Segio | 3 Aprile 2013 7:48

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Anche Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce la sua diversità  assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema, fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere.
È il fantasma che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti. Si riguardi la recente consultazione di Bersani con i rappresentanti del M5S. È il dialogo tra un padre in chiara difficoltà  e due figli in piena rivendicazione protestataria. Mi è subito venuto alla mente Pastorale americana di Philip Roth dove si racconta la storia tormentata del rapporto tra un padre – il mitico “svedese” – e una figlia ribelle, balbuziente, prima aderente ad una banda di terroristi e poi di una setta religiosa che obbliga a portare una mascherina sul viso per non uccidere i microrganismi che popolano l’aria. Da una parte gli sforzi di conciliazione di un padre che non nasconde la sua insufficienza, dall’altra l’arroganza irresponsabile di chi rivendica il possesso di una ragione assoluta. Il dialogo tra loro è impossibile. Il padre cerca di capire dove ha sbagliato e cosa può fare per cambiare la situazione, la figlia risponde dall’alto della sua innocenza: sei tu che mi hai messa al mondo non io; sei tu che hai creato questa situazione non io; sei tu che devi porvi rimedio non io. Così agisce infatti la critica sterile dell’adolescente rivoltoso nei confronti dei propri genitori. Il mondo degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere cancellato. Ma quale mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica è impotente perché non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità  che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata.
Questo fantasma di purezza che ha origini in una fissazione adolescenziale della vita si trova anche a fondamento di tutte le leadership totalitarie (non di quella berlusconiana che gioca invece sul potere di attrazione della trasgressione perversa della Legge). E sappiamo bene dove esso conduce, o può condurre.
Lo stato mentale di un movimento o di un partito si misura sempre dal modo in cui sa accogliere la dissidenza interna. Sa tenerne conto, valorizzarla, integrarla o agisce solo tramite meccanismi espulsivi? Sa garantire il diritto di parola, di obiezione, di opinione personale oppure procede eliminando l’anomalia, estromettendola con forza? Grillo non ha esitazioni da questo punto di vista. Egli applica il regolamento escludendo l’“eccezione” secondo il più puro spirito collettivistico. Salvo però ribadire la propria posizione personale di “eccezione”. Le sue enunciazioni sono singolari, non vengono discusse prima, mentre quelle dei suoi adepti devono essere vagliate prima dalla democrazia assoluta della Rete. Si proibisce che ciascuno parli e pensi con la propria testa, si esige una sorveglianza su ogni rappresentante eletto perché non si stacchi dalle decisioni condivise, ma l’aggressione al Manifesto con il quale alcuni intellettuali si rivolgevano con speranza al M5S chiedendo che dialogasse con il centro sinistra o la minaccia di revocare l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà  di pensiero dei nostri nuovi rappresentanti parlamentari sono state prese di posizione discusse democraticamente? Come può essere credibile in fatto di democrazia un movimento che attribuisce al suo leader il ruolo di incarnare una eccezione assoluta? Il culto demagogico della trasparenza nasconde questa presenza antidemocratica di un potere incondizionato. Se l’azione politica è la pazienza della traduzione, se non ammette tempi brevi, non contempla l’agire di Uno solo, il nuovo leader inneggia all’antipolitica come possibilità  di avere una sola lingua – la sua – che non è necessario tradurre, ma solo applicare. Come non vedere che c’è un paradosso evidente tra l’esigenza che nessuno parli a partire dalla sua testa e l’esistenza di un leader anarcoide che resta esterno al movimento che ha fondato e che esercita il suo diritto di parola in modo arbitrario? Egli è nella posizione del padre dell’orda di cui parla Freud in Totem e tabù.
Una strana mescolanza di anarchia e tirannide sulla quale Pasolini avrebbe speso parole di fuoco.
Un leader degno di questo nome lavora alla sua successione dal momento del suo insediamento mantenendo il movimento che rappresenta il più autonomo possibile dalla sua figura. Prepara cioè le condizioni di una eredità . Tutto ciò diventa di difficile soluzione quando un movimento non ha storia, non ha padri, ma un genitore vivo e vegeto che rivendica il diritto di proprietà  sulla sua creatura. “Io ti ho fatta e io ti disfo”; così una madre psicotica ammoniva una mia paziente terrorizzata. Una leadership democratica deve sempre rispondere al criterio paterno di una responsabilità  senza diritto di proprietà . Si pensi invece alla reazione di Casaleggio all’indomani delle elezioni quando disse che se il movimento non avesse adottato certe sue indicazioni di comportamento, non avrebbe preteso nulla e se ne sarebbe andato. Ecco la minaccia più narcisistica che un fondatore può fare: io starò con te finché tu mi assomiglierai, finché mi riprodurrai; se tu assumerai un tuo volto, una tua originalità  io non ne vorrò più sapere di te e me ne andrò.
Il pluralismo è temuto da Grillo come da tutti i leader autoritari. Il sogno di un consenso al 100 per 100 è un sintomo eloquente. Era il sogno degli uomini di Babele mentre sferravano il loro attacco delirante al cielo, la loro sfida a Dio: un solo popolo, una sola lingua. No, le cose umane non vanno così. Dio sparpaglia sulla faccia della terra quella moltitudine esaltata obbligandola alla differenza, al pluralismo delle lingue, esigendo la pazienza della traduzione. Esistono in democrazia più lingue e ciascuna ha diritto di manifestarsi e di essere ascoltata. Guai se il fantasma di purezza si realizzasse al cento per cento. Lo ricorda giustamente Roberto Esposito: una democrazia che si realizzasse compiutamente sarebbe morta, annullerebbe tutte le differenze nel corpo compatto della “volontà  generale”, darebbe luogo ad una tirannide.

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