La casa comune non vuole il cappello

by Sergio Segio | 26 Aprile 2013 7:21

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Sono due uomini di Goldman Sachs, che ragionano alla maniera di Goldman Sachs: non è necessariamente un legame diretto, ma un dato di cultura e di modus operandi che in Europa sono chiari a tutti, ma che in Italia attirano invece l’accusa di schematismo o complottismo.
Quanto al Movimento Cinque Stelle, gli esiti disastrosi della linea di condotta adottata, che gli è già  costato parecchio in Friuli, non possono essere imputati solo a inesperienza o a eccessiva rigidità : si è visto peraltro Grillo e i suoi adepti ammorbidirsi assai nel corso dei giorni. Il fatto è che il Movimento Cinque Stelle non ha un progetto. Il suo programma è solo un insieme di obiettivi, in larga parte condivisibili, anche perché riprendono temi su cui comitati, movimenti, iniziative civiche e associazioni lavorano da anni. Ma un programma che nulla o quasi dice su come arrivarci, su come imporli. 
Democrazia diretta o referendaria – di cui la consultazione via web è una sottospecie – e democrazia partecipata non sono la stessa cosa. La prima, nonostante i proclami in contrario, si fonda su una delega pressoché totale ai rappresentanti – in questo caso ai parlamentari – cui viene affidato il compito di tradurre in leggi e provvedimenti quello che la constituency – nei cinque stelle la consultazione via web – decide. Senza molte mediazioni, perché queste non possono essere sottoposte ogni volta alle valutazioni di un gruppo di riferimento; neanche se, come si è visto, è assai ristretto. La democrazia partecipata esige invece un contributo costruttivo da parte di tutti i soggetti coinvolti; confronti e riposizionamenti continui; la valorizzazione dell’esperienza e dei saperi di ciascuno; e anche degli affetti, perché l’incontro fisico, la conoscenza reciproca, l’incrocio degli sguardi, a tutti i livelli, ne sono una componente essenziale. Anche in questo caso la delega, sempre a termine e revocabile, è inevitabile, perché i gruppi di riferimento, per essere tali, non possono superare una certa dimensione. Ma è una delega solida, perché la democrazia partecipata non è, o non è principalmente, assembleare.
Certo, nel passaggio tra partecipazione attiva e rappresentanza elettorale – due forme di democrazia che non possono che convivere; nessuna può escludere l’altra in via di principio – il mandato vincolante della prima si stempera nel «senza vincoli di mandato» della seconda. Ma il rappresentante che ha alle spalle un processo di democrazia partecipata avrà  sempre a disposizione, se vuole, uno o più gruppi di riferimento con cui consultarsi, e a cui chiedere anche un supporto tecnico di cui nessun “eletto dal popolo” può fare a meno. E se è stato scelto con cognizione di causa – cosa che, come si è visto, il web non consente – ne farà  buon uso.
Dunque, il passaggio dal vecchio al nuovo governo (e dal vecchio al “nuovo” Presidente della Repubblica), anche se non ha fatto che portare alla luce un vuoto di pensiero e azione, di capacità  e responsabilità  evidente da tempo, ha lasciato dietro di sé un campo di macerie: soprattutto, ma non solo, nel Pd e nel centro-sinistra. Di fronte al quale una serie variegata di organizzazioni si stanno affrettando a gettare le reti per raccoglierne i relitti, proclamando il loro impegno alla costituzione di un “nuovo soggetto politico”; magari senza nemmeno chiedersi – è il caso dei gruppi dirigenti di Sel e del Prc, per non parlare di Verdi, Pdci e altri – che cosa li abbia indotti a trasformare un progetto appena abbozzato, ma unitario, innovativo e democratico come Cambiaresipuò, nell’aborto di Rivoluzione civile; o l’ecologia e la libertà  in un progetto di fusione con il Pd.
Voltafaccia del genere non portano lontano. Un soggetto politico – se così vogliamo chiamarlo – veramente nuovo potrà  sorgere solo rivolgendosi in forme innovative e partecipate ai milioni e milioni di cittadine e cittadini, di lavoratrici e lavoratori travolti dalla piega che hanno preso gli avvenimenti; e solo apprestando, con fatica e per tentativi ed errori, una “casa comune” per chi si oppone allo stato di cose presente: cioè tante sedi dove costruire in forma partecipata – nel senso indicato prima – un programma radicalmente alternativo alle politiche e ai vincoli imposti a tutti i popoli dell’Europa dall’alta finanza e, per suo conto, dalla Bce e dai governi nazionali. Un programma fatto non solo di slogan e obiettivi, ma di proposte e adesioni a iniziative di lotta e a buone pratiche consolidate. Una casa che non può e non deve essere proprietà , od oggetto di appropriazione, di alcuno, perché la sua forza sta proprio nell’essere aperta a tutti quelli che ne condividono la ragion d’essere. Queste sedi – lo ribadiva mercoledì scorso Piero Bevilacqua sul manifesto – sono innanzitutto ambiti territoriali, in un rapporto al tempo stesso conflittuale a partecipativo con le istituzioni dei governi locali: conflitto per rivendicare partecipazione; e partecipazione per promuovere, a un livello più alto, nuovi conflitti. 
Le aggregazioni promosse per rimettere insieme i cocci del centro-sinistra, o i meet-up del Movimento Cinque Stelle (una realtà  immensamente più ridotta del suo elettorato), così come il lavoro di ciascuno di noi, dovranno trovare su questo terreno, che è quello dei movimenti che hanno saputo costruire la propria continuità  nel tempo (il pensiero corre sempre alla Valle di Susa) la verifica del loro operato. La sede di questa verifica è il tassello che manca per ora ai programmi che assommano solo obiettivi, ancorché condivisibili. Si deve lavorare perché intorno ai temi che sono al centro delle tensioni sociali a livello territoriale – una o tante aziende che chiudono; i giovani che non trovano lavoro; le famiglie gettate sul lastrico dai licenziamenti; i servizi sociali che scompaiono; il territorio ceduto alla speculazione, alle autostrade o ai Tav; la cultura che si dilegua insieme ai relativi beni, ecc. – si creino delle aggregazioni sociali fondate sulla partecipazione più ampia, senza pregiudiziali di sorta, ma orientate al conflitto con i poteri costituiti; aggregazioni che siano al tempo stesso una sede di autoformazione politica e culturale e uno strumento di elaborazione programmatica. Il coinvolgimento totale o parziale delle amministrazioni locali in questi progetti è il primo passo verso il loro consolidamento. 
Le scadenze per mettersi alla prova non mancano. Più ancora delle prossime elezioni amministrative, che interessano comunque un numero significativo di città  grandi e medie, giugno è il mese dei bilanci preventivi dei comuni (quelli del 2013, non del 2014: la truffa comincia proprio dal fatto che i bilanci si presentano, quando si presentano, a cose fatte). Sia alle amministrazioni che si erano impegnate a costruirli in forma partecipata – e che poi se ne sono scordate – che a quelle che non l’hanno mai promesso, va imposto con la mobilitazione che i loro bilanci siano redatti per lo meno in una forma leggibile, che permetta di riconoscere le fonti delle entrate e le destinazioni delle spese per ciascuna posta. E’ una partita che interessa molti, perché nei bilanci comunali si nascondono non solo clientelismo e corruzione, ma soprattutto scempi ambientali, abdicazione dai propri compiti istituzionali, deleghe a gruppi di potere privati, diversioni di spese dai servizi essenziali a favore di Grandi opere e Grandi eventi inutili, banche che strangolano la finanza locale, ecc.
Poi va aperta la partita sui servizi pubblici locali. La loro svendita – grazie ai fondi della Cassa Depositi e Prestiti – dopo quella dei diritti di edificazione, è la via principale per salvare i bilanci comunali devastati dai tagli dei trasferimenti statali. Ma i servizi pubblici locali, riportati sotto il controllo di una democrazia partecipata, possono essere invece la strada maestra per promuovere sia una domanda di servizi ecologicamente sostenibili con cui costruire una forma nuova di cittadinanza, sia una domanda di materiali, impianti e attrezzature per permettere la riconversione produttiva delle imprese senza più mercato né avvenire; ma anche la sede dove mettere a punto progetti, interventi e produzioni per creare occupazione utile: forniture alimentari a km0 per la ristorazione collettiva e promozione di Gruppi di acquisto solidale per una nuova leva di agricoltori; potenziamento del trasporto pubblico e di quello condiviso; efficienza energetica; urbanistica partecipata; salvaguardia idrogeologica; riqualificazione delle scuole e dell’istruzione. 
Tutte cose che impongono una revisione radicale dei vincoli di bilancio imposti dal patto di stabilità . Si tratta allora di promuovere in ogni territorio, in ogni città , in ogni quartiere, delle conferenze per mettere a punto progetti e iniziative che nessun governo centrale o regionale sarà  mai in grado di definire; ma che è il modo migliore per dare concretezza alla proposta di Luciano Gallino di creare occupazione attraverso un vasto programma di opere pubbliche e di interventi locali.
Un programma ambizioso; ma soprattutto una “casa comune” per chi non intende accettare le scelte dell’establishment. E però, come impedire che della casa comune cerchi di appropriarsi qualcuno con le proprie truppe e le proprie bandiere per portarla ancora una volta a fondo?

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