KEPEL: “IL RAP È LA VERA RIVOLUZIONE ARABA”
PARIGI. Le primavere arabe hanno smarrito il loro obiettivo originario, che era l’instaurazione di un regime democratico là dove regnava un tiranno: adesso, in società che sopravvivono grazie alla satanica manna dei petrodollari del Golfo, tutto si risolve nell’antagonismo tra sunniti e sciiti. Lo dice il politologo francese Gilles Kepel, del quale in questi giorni Gallimard pubblica Passion arabe, il suo diario delle rivoluzioni più o meno compiute che, dalla Tunisia all’Egitto e dallo Yemen al Barhein, hanno negli ultimi due anni incendiato il mondo musulmano. Per scrivere questo libro, Kepel ha smesso le vesti del professore universitario e indossato quelle dell’inviato speciale. E questa metamorfosi gli è riuscita alla perfezione, perché come Ryszard Kapuscinski o Bernardo Valli, nelle sue pagine riesce a mischiare il racconto di cose viste, che sono le immagini e le testimonianze raccolte sul suo taccuino, con la capacità di analisi di chi da quattro decenni studia l’Islam e il mondo arabo.
Professor Kepel, dal resoconto dei suoi viaggi si direbbe che le primavere arabe siano tutte abortite. E che gli ideali di libertà , giustizia sociale e democrazia siano già stati dimenticati. È così?
«Non proprio. E credo che le espressioni “primavera araba” e “autunno islamista” siano entrambe fuorvianti. In questi Paesi c’è stata una rivoluzione vera, che ha permesso agli arabi di conquistare quella libertà di espressione che gli era stata confiscata dai regimi nati dall’indipendenza. Negli ultimi due anni, quello che ho cercato di fare è stato di penetrare nella carne delle società arabe incontrando chiunque, di ogni ceto o estrazione sociale. A Bengasi, Doha o Aleppo ho parlato con salafiti e laici, jihadisti e intellettuali, militari e contadini, ministri e miliardari dell’oro nero».
Per giungere a quale conclusione?
«Alla conclusione seguente: che se la prima fase di queste rivolte è stata spesso la caduta del tiranno, e la seconda l’arrivo al potere degli islamici, oggi, un po’ ovunque, questo stesso potere è fortemente contestato. Lo scorso febbraio, dopo l’assassinio di Chokri Belaid, è accaduto in Tunisia, dove decine di migliaia di persone sono scese in piazza. E accade in questi giorni in Egitto, dove i Fratelli musulmani hanno perso carisma e credibilità tra la popolazione per la loro pessima gestione del potere, e dove la gente ha ripreso a scandire gli slogan di Piazza Tahrir. In questi luoghi, numerosi tabù sono stati infranti. Al Cairo, per esempio, si tengono manifestazioni per i diritti gay e riunioni di chi professa l’ateismo. Ora, entrambe le cose sarebbero state impensabili, o comunque violentemente
represse, ai tempi di Mubarak».
Si può allora continuare a sperare?
«Sì, perché le rivoluzioni arabe non sono ancora finite. E i loro protagonisti non hanno ancora pronunciato l’ultima parola. Le società civili cominciano a farsi sentire contro l’intransigenza degli islamisti. Oggi si balla ovunque l’Harlem Shake per ridicolizzare i barbuti. In Egitto e in Tunisia, i Fratelli musulmani hanno creduto, sbagliando, che l’ordine morale avrebbe appagato le rivendicazioni sociali dei rivoluzionari. C’è poi il paradosso
dei salafiti, che si rivolgono ai delusi della rivolta, promettendo un’utopia radicale e un nuovo ordine sociale. Senza dire per che sono loro stessi devoti a quegli ulema stipendiati dalle monarchie del Golfo, le quali difendono l’immobilismo più totale».
C’è però il caso siriano, con i suoi orrendi massacri che sembrano destinati a durare in eterno. Perché nessuno riesce a risolvere un conflitto così sanguinoso?
«Purtroppo il conflitto siriano va ben oltre la Siria. Questo Paese, che è la chiave di volta del Medio Oriente perché coinvolge sia Israele sia i giganteschi interessi del petrolio, è preso in ostaggio dalle potenze regionali e internazionali. Gli Stati del Golfo finanziano i gruppi salafiti e jihadisti, come il Fronte al Nusra, per uccidere gli alauiti e indebolire l’alleanza sciita capeggiata dall’Iran; gli iraniani, invece, armano e sostengono il sanguinario regime di Bashar al Assad. La Siria, attraversata oggi dalla spaccatura tra sunniti e sciiti che è diventata la principale contraddizione di quella parte di mondo, è anche il luogo dove s’inabissano le più violente tensioni internazionali ».
Sembra proprio che gli emiri delle monarchie del petrolio abbiano sin dall’inizio vissuto le rivolte arabe come il peggiore dei loro incubi. Ma perché si sono impegnati così tanto, spendendo miliardi di dollari?
«Perché hanno immediatamente temuto l’arrivo attraverso il Mar Rosso di masse di diseredati. Perciò hanno reagito annaffiando di soldi, chi i gruppi salafiti chi i Fratelli musulmani, nella speranza che queste organizzazioni islamiche potessero contenere o imbrigliare le rivoluzioni. Il re saudita Abdallah ha cacciato di tasca propria 130 miliardi di dollari per prevenire il contagio della rivolta in casa sua. L’Arabia Saudita e il Qatar si sono poi trovati d’accordo su un solo punto, il loro nemico comune: l’Iran. Oggi l’avversione per Teheran supera di molto quella nei confronti di Gerusalemme».
Nel suo libro lei percorre quattordici tappe, e quattordici sono le stazioni della Via Crucis. Nel titolo, c’è poi la parola “passione”, che potrebbe indurre in errore. Perché?
«Passione perché è ciò che provo per quel mondo, così come per i tanti amici, e i pochi nemici arabi, che in tutti questi anni mi hanno accompagnato nei miei viaggi. Ma ho scelto questo titolo anche in senso cristico, per l’enorme sofferenza che in questi anni affligge quei Paesi. Retrospettivamente una rivoluzione può essere una tappa importante e fondatrice nella storia di una nazione. E quando la vivi puoi trovarci qualcosa di esaltante. Ma è sempre un evento atroce. Del resto, il mio diario comincia sul Golgota di Gerusalemme e finisce in cima a una montagna della Siria liberata, dove s’è svolta una battaglia particolarmente cruenta, e che chiamo il Monte Calvario ».
Le sembra illusorio pensare che un giorno in questi Paesi del mondo arabo possa finalmente nascere una democrazia?
«No, anche se può trattarsi di un parto lungo e difficile. In Tunisia, per esempio, primo Paese dove è scoppiata la rivolta, c’è già una forma di democrazia, sia pure imperfetta. E nonostante le tentazioni totalitarie degli uni o degli altri, c’è libertà di parola e a Tunisi la società si esprime con forza. Altrove, la democrazia nascerà dopo un travaglio doloroso. E questa redenzione democratica fa pensare anch’essa a una forma di passione, nel senso della sofferenza di Cristo».
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