by Sergio Segio | 21 Aprile 2013 6:11
È l’Ambasciata dell’Ecuador e potrebbe passare inosservata se non fosse per un piccolo presidio, notte e giorno, di persone che espongono uno striscione: “Free Julian!”. Qui, dal giugno 2012, vive come rifugiato politico Julian Assange.
Quando arrivo all’ambasciata, mentre vengo perquisito e consegno passaporto e telefono, non so esattamente cosa aspettarmi. Come tutti quelli che subiscono una narrazione mediatica, anche Assange quando lo si incontra di persona provoca un senso di straniamento. Pensavi di trovare un uomo e invece te ne trovi davanti un altro, completamente diverso. Succede sempre così. Dalla conoscenza personale si evincono quelle sfumature e quei tratti che la narrazione ha cassato, assolutizzando in qualche tratto il tutto.
Davanti a me c’è un ragazzo molto bello — direi angelico — piedi scalzi e maglietta del Brasile con dietro scritto il suo nome. Dopo le presentazioni mi porta in una stanza, la sua. È una stanza incredibilmente piena. Un disordine che conosco e riconosco bene. Le stanze di chi vive senza mai poter uscire hanno un disordine tutto loro. Non è il disordine di chi entra ed esce, o di chi è troppo impegnato per poter mettere in ordine. Neppure di chi lì dentro porta il caos della propria vita professionale, come spesso sono le scrivanie dei giornalisti dove si accumulano cose che non si ha mai il tempo di archiviare o sistemare. No. Il disordine di chi non esce è il disordine di uno spazio che si satura. Di oggetti o carte che attendono qualcuno. Continui a ripeterti che quando riuscirai a vedere quella determinata persona gli darai quella determinata cosa che conserverai chissà per quanto tempo. E intanto tutto resta in attesa. È il disordine di una vita che si deve comporre lì dentro, in un unico spazio. È molto difficile mettere in un sol posto il rum, i dossier e una cyclette. In queste stanze ci sono pezzi di una quotidianità che spesso — anzi sempre — si divide in tanti altrove.
Mendax è cresciuto ma i suoi principi sono rimasti intatti. E per questi principi oggi paga un prezzo drammatico. Mendax era il nome che Julian usava a sedici anni quando fondò un gruppo chiamato International Subversives e ne scrisse la regola base: «Non danneggiare i sistemi nei quali entri, non modificare le informazioni che trovi e condividile».
Condividere. Non usare, mistificare, modificare, piegare, omettere. No: condividere. Condividere informazioni significa renderle pubbliche a uso di chi legge, di chi guarda, di chi ascolta. A sedici anni Julian Assange aveva un’idea molto chiara di cosa significasse per lui democrazia ed era un’idea basata principalmente sulla libera circolazione delle informazioni. Poi nel 2006 fonda WikiLeaks, una rivoluzione mediatica di dimensioni incalcolabili. L’assunto: i regimi non vogliono essere cambiati, ecco perché per conoscerli è necessario utilizzare tecnologie che chi è venuto prima di noi non aveva a disposizione. Più un’organizzazione è ingiusta, più le fughe di notizie provocano timore e paranoia.
Il punto di svolta è il 28 Novembre 2010, quando WikiLeaks inizia a rendere pubblici alcuni dei 251mila cablogrammi statunitensi in suo possesso. Ha inizio così anche la caccia alle streghe.
Oggi Julian Assange trascorre le sue giornate come un detenuto, e come un detenuto ogni giorno fa ginnastica, cinque chilometri al giorno, tra cyclette e tapis roulant.
Mi hanno detto che ha una lampada abbronzante, ma non la vedo: dovrebbe servire a stimolare la melanina in un corpo già pallido e da troppo tempo costretto tra luci elettriche e buio. Nella sua camera il flebile sole londinese non arriva mai, non affaccia verso l’esterno. Tra le poche stanze dell’ambasciata ecuadoregna, un semplice appartamento trasformato in ufficio in cui Julian vive da ospite, si sposta perlopiù scalzo per disturbare il meno possibile il lavoro degli impiegati e dei funzionari alle prese con passaporti, carte, fax. C’è un cucinino, ma sembra troppo piccolo per poter organizzare una vera cena. E poi il cibo arriva da fuori, ed è il peggior cibo del mondo, gli assicuro, «Sei italiano…non vale» mi risponde.
Julian vive in una prigione per non finire in prigione. Siccome non c’è spazio le pareti diventano spazio. Un enorme foglio di cemento bianco su cui attaccare pensieri, post it, progetti, ordini del giorno. Cose da fare. Le finestre sono i soli squarci concessi all’aria. Ma quelle finestre senza sbarre e la gentilezza che lo circonda ogni giorno gli ricordano che questa non è una cella. «Come si vive qui? Riesco persino a ballare…» mi dice ridendo. Credo stia scherzando, mi informano che non è così. La notte è il momento più difficile. Conosco le ore dell’insonnia, dell’ansia nell’attesa del giorno dopo. Ma Julian ha il suo computer ed è lì dentro che passa la possibilità di disciplinare la vita. Sa che da qualche parte del mondo è sempre mattina, e va a cercarsi quella parte. La sua stanza, mi dice, è una «navicella spaziale».
In Italia ci si concentra sul gossip per non approfondire segmenti che portano informazioni ben più importanti ma non altrettanto immediate. E per diffondere questo tipo di informazioni proliferano siti di retroscena, a volte macchine estorsive che spifferano dicerie perlopiù false che mettono in difficoltà i vari poteri fotografandoli in mutande. Nulla di tutto questo ha a che fare con la mappatura dei meccanismi sotterranei del Potere. Ed è questo invece il lavoro di WikiLeaks. È il racconto di come il Potere comunica.
Ricordo un cablogramma in cui si parlava di Silvio Berlusconi come di un politico ridicolo che crede di essere un leader internazionale: il diplomatico americano riteneva che continuare a farglielo credere fosse il modo migliore per condizionarne il comportamento. Wikileaks ha svelato il Dna del meccanismi di potere, le strategie e le tattiche che il potere tiene nascoste. E il grande merito di Assange è stato proprio questo: non aver mai fatto o fomentato campagne personali, mai utilizzato i file diffusi per attaccare singole persone. Ha invece lavorato per mostrare il sistema. Mostrare come i grandi gruppi bancari condizionino le nostre vite. Come media e fango distruggano spesso l’esistenza delle persone. Lo stato di sorveglianza a cui siamo sottoposti, la fusione transnazionale di governo e corporazioni, il crollo dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali. Il suo pallore sembra quasi entrare in contraddizione con il lercio che Julian Assange ha tirato fuori attraverso il suo lavoro.
Ma anche in WikiLeaks esiste un punto debole da cui non possiamo prescindere. Si può riassumere in quell’“intercettateci tutti” detto spesso con troppa leggerezza. Un punto debole che individuo nella violazione, talvolta, di informazioni private, irrilevanti rispetto al quadro d’insieme, alla conoscenza dei meccanismi e che passa sopra le persone, travolgendole. Qual è l’assunto? Se non abbiamo nulla da nascondere non c’è nulla di male a essere intercettati. Ma questo è anche il principio della tirannia mentre, al contrario, la riservatezza delle informazioni personali è il principio della libertà . Se in un’intercettazione diffusa è presente un giudizio negativo su una persona che in questo modo viene diffamata e se a farlo sono rappresentanti di uno Stato verso rappresentanti di un altro Stato, la conversazione smette di essere privata e diventa il giudizio di un Paese su un altro Paese. Io stesso venivo citato in alcuni cablogrammi diffusi da WikiLeaks riguardanti la penetrazione della camorra in Spagna. Ero stato ascoltato da consoli e ambasciatori americani in Italia e in Spagna; avevano verificato le notizie che avevo dato loro e comunicato agli Stati Uniti la situazione. Se in quel contesto ci fosse anche stato un giudizio verso di me e se quel giudizio non fosse rimasto cosa privata, sarebbe stato preso come il giudizio ufficiale degli Stati Uniti su . Non solo. Ci sono informazioni sulla sicurezza nazionale che secondo alcuni avrebbero potuto mettere a rischio i cittadini. Sono queste le contraddizioni che si trovano dentro l’incredibile operazione che ha messo in moto Julian Assange.
I giornali lo descrivono come un uomo triste, io me l’ero immaginato malinconico. Non è così. Anzi, sembra quasi infastidito dalla mia di malinconia. Per lui vivere questa incredibile esistenza è un privilegio. Perché, sostiene, questo è il miglior periodo di sempre per la formazione di una classe politica diversa, più consapevole. Per la creazione di nuove reti, alleanze e idee, risultato della rivoluzione nelle comunicazioni. Il momento migliore per comprendere quale sia la linea di demarcazione tra chi ha coraggio e chi non ce l’ha. Perché, nonostante tutto, Wiki-Leaks continua a diffondere informazioni.
Mi domando come riesca a trovare un equilibrio, che cosa gli dia la tranquillità . Sapere che come nemici si hanno i più grandi gruppi finanziari del mondo, che la tua vita è stata delegittimata e continuare a mantenere il sorriso, senza lamentarsi mai, questa secondo me è una rivoluzione incredibile. Julian sembra essere un uomo di grande equilibrio, che riesce a gestire questa situazione con una forza che definirei zen. Lo invidio. Non ne sono capace. E forse il suo più grande segreto è proprio questo: la capacità di mantenere l’equilibrio nel mare in burrasca. La mia — mi ha detto — è una vita straordinaria. Si tratta solo di essere consapevoli del fatto che se si vogliono capire e raccontare certi poteri alcune conseguenze sono inevitabili.
È rinchiuso, ha contro i governi di mezzo mondo, un’estradizione pendente e un’attenzione mediatica che va scemando, eppure quello che incontro non è un uomo disperato. Vogliono farci una foto insieme in questa sorta di appartamento chiamato ambasciata. C’è Nicol che è stata autorizzata. Acconsentiamo. Julian mi guarda e dice, «No, così seri no, sembriamo sconfitti. Ridiamo, sempre». Mi stringe, sorridiamo, ed è la vera vittoria.
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