Il muro di Berna

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BERNA. Alle sei della sera, nel vecchio quartiere della Matte dove un tempo c’erano gli artigiani, Rino, 56 anni, cameriere beneventano, osserva le acque dell’Aar che accarezzano la sua Berna. «E mo’, dunque, vogliono farci tornare a Surriento?». Così, pare. Gli svizzeri. «E che facciamo poi in Italia? Che fanno gli svizzeri senza di noi? Vogliono restare senza muscoli e cervello?». Chi mai avrebbe immaginato che centoventi anni dopo le valigie di cartone che partivano per l’America in cerca di fortuna, qui, molto più vicino di Little Italy, nei cantoni elvetici, nella capitale e più giù in Ticino, a cinque minuti dall’Italia, ci avrebbero paragonato a dei roditori in trasferta, oppure raffigurati nei panni tremendi di usurpatori di posti di lavoro? Rino è un piccolo pezzo di Italia che fa girare la Svizzera. Col suo vassoio e i suoi tremila franchi di salario, per altro, non sarebbe nemmeno tra gli immigrati più “pericolosi”. Non genera dumping salariale, è venuto su e ha messo radici, nel senso che lavora, vive, guadagna e spende a Berna: come gli svizzeri. Nella Svizzera 2.0 ce l’hanno di più coi frontalieri: infatti i nazional-protezionisti dell’Udc, l’Unione democratica di centro che qui è partito di destra, i lavoratori “vai e vieni” italiani li hanno sbattuti sopra dei raffinati manifesti che nemmeno la Lega Nord delle origini (“Arrivano a milioni! Fuori dalle palle!”, con l’immagine degli immigrati versione formiche). Eccolo l’ultimo poster dell’Udc: il frontaliere in giacca e cravatta e telefonino in mano. Al suo fianco, un lavoratore svizzero in canottiera sporca e mutande con la scritta «Lavoro… siamo in mutande». Due anni fa erano stati ancora più delicati: l’impiegato italiano era un topo intento a sgranocchiare il formaggio svizzero. Uno scroccone con la coda.
Danno i numeri gli svizzeri? Sì. Anche quelli delle casse edili e artigiane. E del terziario. Quest’ultimo settore, secondo i nuovi protezionisti elvetici in guerra contro l’immigrazione italiana e non solo italiana (anche tedesca, portoghese, spagnola, greca), sarebbe oggi cannibalizzato da 8mila frontalieri. “Extracomunitari” che ogni mattina varcano il confine di Como o Varese e la sera, dopo otto o dodici ore di lavoro, se ne tornano di qua senza scrupoli di coscienza,
vergogna. Cinquantaseimila nel solo Ticino. Troppi, secondo gli esponenti di diversi partiti svizzeri. Le posizioni più radicali sono espresse ovviamente dalla Lega dei Ticinesi. Dice Lorenzo Quadri: «Le cifre parlano chiaro, nel nostro cantone i frontalieri sono un quarto della forza lavoro totale. Vuol dire concorrenza impari e
dumping al ribasso dei salari. L’italiano, vivendo in Italia, dove il costo della vita è inferiore, può permettersi di accettare stipendi bassi. L’unica soluzione è uscire dalla libera circolazione dei lavoratori». È questo il punto. È il nodo che stringe la Svizzera, il suo conflitto interiore. Da una parte l’orgoglio di un’economia che tiene alla grande (se paragonata con la nostra e con quella dei Paesi che fanno le valigie per venire quassù), di un tasso di disoccupazione che non arriva al 3 per cento, di un volume di interscambio quotidianoconl’Unione europea di un miliardo di franchi. Dall’altra il fastidio, che sta diventando un’ossessione e facendo montare una campagna anti-immigrati, per l’ondata crescente di lavoratori stranieri che vengono a cercare (e lo ottengono quasi sempre) uno stipendio. In nome e grazie all’accordo sulla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’Ue. L’anno scorso le porte — anche quelle delle aziende — si sono aperte per 55.430 stranieri provenienti dai Paesi dell’Ue-17 (permessi di soggiorno di lunga durata +4,6 per cento rispetto al 2011); altri 54.185 sono stati concessi da Berna agli immigrati in sosta breve
(+5,7 per cento).
Perché se la stanno prendendo proprio con gli italiani? Semplice. Perché siamo quelli più vicini, arriviamo prima, e ci fermiamo di più. Nel 2012, dice l’Anagrafe della popolazione italiana residente all’estero (Aire), la crisi ha fatto esplodere l’emigrazione (+30,1 per cento). I connazionali partiti per la Svizzeraincercadilavorosonocresciuti del 50 per cento rispetto all’anno prima (8.906 contro i 5.318 del 2011 e i 3.500 del 2009). Più dei portoghesi e dei greci (12mila). Troppi, troppi e dunque da fermare. «Il popolo si è visto assalito da un giorno all’altro — ragiona Angelo Geninazzi, rappresentante di Economie Suisse, la Confindustria svizzera — . Finora ha sempre votato perlaliberacircolazione, adesso peròdall’eventualereferendum potrebbe uscire un voto diverso».
Sono tanti i segnali. I Cantoni si stanno chiudendo a riccio, e a Berna il Consiglio federale si sta adeguando. Come?Lohastabilitol’Ufficio federale delle migrazioni (Ufm). «Se tra giugno 2012 e il 31 maggio 2013 i permessi di soggiorno concessidallaSvizzerasuperassero almeno del 10 per cento la media annuale delle autorizzazioni rilasciate nel corso dei tre anni precedenti — spiega Sibylle Siegwart — la Svizzera invocherà  la clausola disalvaguardia»(già attivatal’anno scorso ma solo nei confronti degli otto Paesi dell’Europa dell’est membri dell’Ue, la cosiddetta Ue-8). La restrizione estesa ai vecchi Stati membri dell’Ue-17 (tra cui Italia, Cipro e Malta) consentireb-
be a Berna, secondo quanto stabiliscono gli accordi con Bruxelles, di contingentare gli arrivi. Già  a maggio il tetto dei flussi potrebbe essere superato: i lavoratori-invasori sono avvisati.
Volendola vedere anche come una questione di democrazia e di diritti, non tira una bella aria. La stura al partito dei protezionisti elvetici — che mette insieme sullo stesso fronte la Lega, il Partito liberale radicale e anche il Partito popolare democratico — l’ha data la campagna elettorale in vista delle comunali di Lugano, Mendrisio e Terre di Pedemonte. Siamo in Ticino. «Sono slogan beceri provocatori e offensivi nei confronti dei frontalieri e degli immigrati in genere », tuona la deputata comasca del Pd Chiara Braga. La replica arriva da Fulvio Pelli, già  presidente dei liberali radicali. «La gente non ne può più e adesso inizia a reagire, gli stranieri portano via il lavoro agli svizzeri. Con tutte le conseguenze del caso: dumping con ribasso sui salari, bolle immobiliari, torsione degli equilibri sociali». Pensare che la tanto invocata o maledetta clausola di salvaguardia potrebbe, e sarebbe una beffa, persino non bastare a placare il malpancismo. «Il nostro partito la appoggia, ma l’efficacia reale è molto discutibile. E la clausola non si applica ai frontalieri».
La mina che si nasconde sotto il terreno fa tremare i polsi a molti, in primis a quei volponi degli imprenditori. Se Berna decidesse di forzare la mano e serrare gli accessi, a Bruxelles non la prenderebbero benissimo. Uno scontro frontale Svizzera-Ueavrebbeconseguenze inimmaginabili per l’economia elvetica: altro che dumping salariale e frontalieri sudati in giacca e cravatta. Vale la pena di rischiare?
Fabio Regazzi, deputato del Partito popolare democratico, essendo anche imprenditore metalmeccanico si discosta dalla linea del partito. «La libera circolazione aiutal’economiaedèanchegrazie ai lavoratori stranieri, ai quali la Svizzera ha sempre offerto opportunità , che riusciamo a essere competitivi e in controtendenza rispetto alla crisi e alla disoccupazione di altri Paesi».
Qualche giorno fa Libera Tv, canale di informazione vicino alla Lega fondata dal defunto Bignasca, il Bossi ticinese che odiava gli italiani, ha lanciato una petizione popolare a difesa del lavoro svizzero e contro l’incubo frontaliero. Centinaia di firme raccolte in poche ore. L’Udc segue a ruota e lancia una controffensiva se possibile anche più decisa. Avanti di questo passo la neo xenofobia elvetica potrebbe portare a un suffragio: immigrati, dentro o fuori.
Per secoli la Svizzera fu un Paese d’emigrazione. Di identiche valigie di cartone, di giovani spazzacamini che partivano e andavano ad “annerirsi” in Italia, come racconta
Die schwarzen Bruder (“I fratelli neri”), il romanzo popolare di Lisa Tetzner. Dalla Svizzera all’Italia. Adesso la ruota è girata e la memoria si accorcia. È proprio cambiata l’aria. Quella di oggi è «fetida e odora di un vecchio e inutile protezionismo — scrive Libero D’Agostino sul settimanale ticinese Il Caffé—. Perché il frontaliero va bene se ha le unghie nere e la tuta sporca di grasso; è un affronto, invece, se si presenta in giacca e cravatta. Così abbiamo smesso di immaginare il futuro». È sera, Rino il cameriere è già  in sala col vassoio: non è in mutande e nemmeno in giacca e cravatta, indossa gilet e papillon, sta semplicemente facendo il suo mestiere.


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