Il cuore transennato di Boston «Siamo di nuovo vulnerabili»

by Sergio Segio | 17 Aprile 2013 6:36

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BOSTON — «Certo che correrò di nuovo, non puoi mica dargliela vinta. Ma non sarà  più una festa, la favola è finita», sospira Melissa Winn, che è venuta alla tenda della Boston Athletic Association per ritirare il sacco coi suoi effetti personali. In una mano ha il numero di pettorale, 21411, con l’altra spinge una carrozzina: «È mio figlio. È nato sette settimane fa. Non ho potuto allenarmi, ma non volevo mancare. Per me questa maratona è vita, è la dodicesima volta che la faccio. Continuerò, non può vincere il terrore. Ma come faccio a dire che non avrò paura?».
Qualche metro più in là  un maratoneta 68enne che invece è allenatissimo — Lolo Tiozzo, animatore di «Ovunque Running», una specie di tour operator dei maratoneti italiani — è ancora incredulo: «Corro dal 1989, ho fatto più di sessanta maratone. Una maratona è per sua stessa natura indifendibile, certo. Ma non è mai stata considerata un vero bersaglio. Nemmeno in luoghi flagellati dal terrorismo. E questo proprio per la sua natura di manifestazione sportiva diffusa sul territorio. A marzo ho corso la maratona di Gerusalemme. Neppure lì c’erano controlli particolari. Nemmeno a New York, a parte lo screening iniziale, quando arrivi, c’è una vera sorveglianza. Come fai? È una storia che lascerà  il segno, un futuro triste per i giovani che vogliono correre».
Boston il giorno dopo è ancora una città  immersa in un sole abbacinante. La maratona del Patriot Day, che in questa città  è anche il giorno in cui la gente celebra la sua festa della primavera dopo un inverno lungo e freddo, si è portata via tutta la gioia col suo finale insanguinato. E si è portata via anche l’illusione che un’America non più impreparata davanti alla minaccia terroristica non sarebbe più ripiombata nel clima dell’11 settembre del 2001. Tanti attentati sventati in più di 11 anni, ma stavolta non si è riusciti a prevenire. Né si riesce ancora a capire la matrice di questo attacco.
Anche un altro episodio, a Washington, ieri pomeriggio, ha risvegliato gli spettri del passato: una lettera contaminata con la ricina è stata inviata al senatore repubblicano Roger Wicker, che rappresenta il Mississippi. Si tratta di una sostanza naturale molto tossica e potenzialmente letale. Ma la lettera (che sembra sia stata inviata da qualcuno che in passato aveva già  mandato messaggi ai politici) non è mai arrivata a destinazione. La sostanza è stata scoperta durante i test cui le buste dirette al Congresso vengono sottoposte dal 2001, quando — dopo l’11 settembre — lettere all’antrace furono spedite a senatori democratici e ad alcuni giornali (morirono 5 persone).
Intanto a Boston, nei quartieri affacciati sull’oceano, lontani dal traguardo della maratona, la gente è tornata a lavorare: la città  non si vuole fermare. Ma tutte le manifestazioni sportive sono state sospese: la partita di hockey rinviata, quella di basket dei Celtics cancellata. E il centro cittadino attorno a Copley Plaza è un deserto transennato: «crime scene» dove gli investigatori cercano indizi, ricostruiscono l’attentato.
La polizia non ha ancora arrestato nessuno. Sospetta di uno studente saudita che è ricoverato in ospedale, ma non ha elementi sufficienti per arrestarlo. Ha perquisito la casa nella quale vive con alcuni amici, al numero 364 di Ocean Avenue a Revere, un sobborgo della metropoli del New England.
Terroristi venuti da fuori? Cellule impazzite di qualche gruppo estremista americano o di qualche setta fanatica? Nessuno ha ancora una risposta. Bisogna capire, ma anche reagire. I commentatori dei media locali cercano di dare coraggio: «Il modo in cui reagiremo a questa tragedia è importante quanto prendere i responsabili. Niente panico, è il momento di mostrare coraggio e solidarietà . La gente che ieri, dopo lo scoppio della seconda bomba, ha aiutato le vittime anziché fuggire è la dimostrazione vivente che i terroristi non la spunteranno. Che non ci chiuderemo in casa spaventati».
Tra i luoghi che non si sono arresi allo stato d’emergenza, il museo del Tea Party, sul molo di Congress Street. L’attore che impersona il leader dei coloni insorti contro la corona britannica, Samuel Adams, grida come sempre i suoi slogan indipendentisti. Una piccola folla di «patrioti», tra i quali c’è anche qualche maratoneta, sale, poi, sulla replica della «Eleonor», la nave dalla quale i coloni ribelli gettarono in mare le balle di tè per non pagare le relative tasse agli inglesi. I visitatori ripetono il gesto gettando in acqua finte balle, poi vanno a vedere una ricostruzione della battaglia di Lexington: la prima della guerra d’indipendenza, l’evento celebrato nel Patriot Day di Boston. Nessuno vuole credere che ad aver trasformato quella festa in tragedia possa essere stato qualche estremista americano. Come i «white supremacist» razzisti, tra i quali ci sono anche dei fan dei rivoluzionari del tè. Eppure i precedenti non mancano.
Del resto, chi non è turbato oggi in una civilissima città  improvvisamente spezzata in due da una delle sue vie principali trasformata di campo di battaglia insanguinato? «Arrivavano a decine», sembravano le scene viste tante volte in televisione di Bagdad o di Israele, dice un medico del Boston General Hospital che sta curando 32 delle vittime dell’attentato. «Sembrava lo scoppio di uno Ied (Improvised explosive device, ordigno improvvisato, ndr), come sulle strade di Kabul» racconta Tim Kenney, un veterano dell’esercito da poco rientrato dall’Afghanistan che aveva tagliato il traguardo pochi attimi prima delle esplosioni. E anche Fabio Schiantarelli, professore di economia al Boston College, lunedì, sul traguardo, è tornato con la mente a ricordi drammatici, lontani nel tempo: «Ho risentito il rumore delle bombe dell’Ira nella Londra di fine anni 70, gli anni dei miei studi. Qui a Boston sono alla mia settima maratona. L’anno prossimo? La farò di nuovo: ormai è un dovere civico».

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