Il cuore oscuro della Milano bene

by Sergio Segio | 18 Aprile 2013 8:52

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«La gente si allea nelle paure. E tu vedi come i bravi e i giusti siano alleati in una paura intelligente». Così scriveva il siciliano-milanese Elio Vittorini, ne Il garofano rosso (uscito dalla Mondadori nel 1948). E oggi, se dovessimo cercare una sfumatura che rende omogeneo il nuovo romanzo del siciliano-milanese Giuseppe Di Piazza, Un uomo molto cattivo (pubblicato dalla Bompiani) questa avrebbe il colore di una paura intelligente. Consapevole. Un precipitato di sensi di colpa, malinconia da potere, scetticismo colto, fatalismo.
La storia: Sari De Luca è un cinquantenne alla guida del maggior gruppo editoriale italiano. Archiviato il primo matrimonio, condivide con la seconda moglie una sterile routine sessuale priva di reciproca curiosità . E ama la ventottenne Valeria, nel cui fresco pragmatismo (non ancora diventato cinismo da mezza età ), ritrova un’allegra, riposante concretezza. Successo, soldi, un figlio finalmente grande: Sari è ragionevolmente felice, finché un giorno telefona un uomo dal forte accento meridionale che sostiene di essere suo parente e che lo chiama con il suo vero nome. All’improvviso De Luca si ritrova avviluppato nelle proprie inestirpabili radici siciliane, nei presunti peccati del nonno. Deve fronteggiare qualcosa che non conosce: la mafia, che rapirà  Valeria e che lo catapulterà  nei sette giorni decisivi della sua vita.
Il ritmo quasi perfetto di questo noir, la tensione che rende accattivanti anche certe situazioni che altrove sarebbero risultate improbabili, sta forse in quella «paura intelligente» di cui parlava Vittorini. È un’inquietudine, un’incompletezza, un’ombra che molti milanesi acquisiti ben conoscono e che, negli anni, si trasforma lentamente da ambizione rampante ad amarezza da potere raggiunto. È per colmare la sua infanzia oscura che Sari si lancia alla conquista della città . È nelle sue origini ambigue che risiede l’incapacità  di guardare negli occhi il figlio; sempre qui nasce quella smania che lo porta a tradire le donne e a rifugiarsi nella solida, veneta, piccolo borghese giovinezza di Valeria, «la donna che amo», ed è credibile perché l’amore (lo diceva un altro siciliano-milanese, Giovanni Verga) è «sentire le cose con un po’ di giudizio».
Se il precedente libro di Di Piazza, I quattro canti di Palermo (pubblicato dalla Bompiani) era un’intersezione di storie ambientate nella guerra di mafia in Sicilia, qui il salto narrativo è evidente: la guerra è nascosta ma letale, affiora subdola dalla facciata apparentemente inattaccabile di una città  più cedevole di quanto il rigore calvinista del lavoro voglia far credere. Sari lo sa bene, lo avverte in virtù di quelle origini segrete persino a se stesso: è come se tutta la sua vita fosse stata predisposta per accogliere quel momento fatale in cui, come tutti i figli, dovrà  pagare per le colpe dei padri. È questa consapevolezza che rende il protagonista del romanzo un personaggio ben costruito, plausibile. Oltre naturalmente alla profonda conoscenza dell’ambiente editoriale da parte dell’autore: giornalista di lungo corso, Di Piazza è arrivato da Roma a Milano, dove, tra l’altro, è stato direttore dei magazine «Max» e «Sette».
Dunque il tema di questa «nuova mafia» tentacolare, che sconfina (la vicenda si snoda tra Milano, Barcellona e Ginevra) si conferma come un promettente filone narrativo. E la Milano di Di Piazza non è, ovviamente, la Milano di Scerbanenco, tra sparatorie e inseguimenti. Ma nemmeno quella del vizioso Lazzaro Santandrea, il commissario creato da Andrea G. Pinketts. È la Milano benestante dell’editoria che conta, dei cinquantenni solidamente in sella. Quella Milano che, archiviata Tangentopoli, si illude di aver sconfitto i fantasmi e si inventa una normalità  costosa.
Di Piazza si muove bene tra i registri narrativi, dall’«alto» del grande editore (gustosissima la descrizione dello scrittore dall’ego smisurato) al «basso» dei piccoli boss mafiosi. Forse il racconto si sarebbe avvantaggiato di un minor numero di citazioni colte (da Kundera a Horowitz). Forse certe descrizioni della seconda moglie sanno di stereotipo. Ma la storia c’è e Sari svetta con personalità , vita propria. Con la paura intelligente di vittoriniana memoria.

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