by Sergio Segio | 5 Aprile 2013 6:29
«Il grande gioco del Quirinale» è l’istant-book da oggi in edicola con il Corriere della Sera. Il saggio analizza come sono stati interpretati nella storia repubblicana i poteri «a fisarmonica» della più alta carica dello Stato, le dinamiche con l’evoluzione politica del Paese, gli scatti in avanti che negli ultimi vent’anni hanno reso sempre più penetrante il ruolo dei presidenti. Una metamorfosi che ha ormai imposto un modello borderline che inevitabilmente sarà il metro di misura per il prossimo capo dello Stato e sul quale in queste pagine s’interrogano le grandi firme del Corriere: Michele Ainis, Marzio Breda, Antonio Carioti, Giuseppe Galasso, Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco, Antonio Puri Purini e Sergio Romano, del cui intervento pubblichiamo uno stralcio. I l profilo del presidente delineato dalla Costituzione nel 1947 era apparentemente chiaro, ma i suoi poteri erano, forse intenzionalmente, imprecisi. Il presidente doveva impersonare l’unità nazionale, ma sarebbe stato eletto da un Parlamento dove sedevano i rappresentanti dei partiti politici. Sarebbe stato facile eleggere un personaggio rappresentativo e decorativo; molto più difficile scegliere una persona che avrebbe nominato il presidente del Consiglio e, all’occorrenza, sciolto le Camere. Il «magistrato di persuasione e d’influenza», quindi sarebbe stato eletto da una maggioranza politica. Sino a che punto sarebbe riuscito a prenderne le distanze o evitare accuse di partigianeria se la situazione lo avesse costretto a tagliare nodi con decisioni destinate a favorire una parte contro l’altra? La storia della Repubblica, quindi, è anche la storia del modo in cui ogni presidente ha interpretato le proprie funzioni e riempì il vuoto lasciato dai costituenti. (…)
La presidenza Napolitano ha avuto con il governo Berlusconi un rapporto di reciproca diffidenza non troppo diverso da quello di altri presidenti con altri governi: Gronchi con Segni, Segni con Moro, Cossiga con Andreotti, Scalfaro con Berlusconi, Ciampi con Berlusconi. La formazione del governo Monti nel novembre del 2011 ricorda quella del governo Pella nel 1953, del governo Tambroni nel 1960, del governo Ciampi nel 1993 e del governo Dini nel 1995, per non parlare dei numerosi tentativi più o meno falliti di Sandro Pertini. Esiste dunque, al di là delle differenze caratteriali fra le singole personalità , un rapporto dialettico fra il Quirinale e Palazzo Chigi che la Costituzione non esclude e che contribuisce in ultima analisi alla difesa della democrazia? Potremmo accontentarci di questa tesi se il presidente intervenisse soltanto quando il sistema è inceppato e facesse un passo indietro, dopo la conclusione della crisi, per lasciare al governo una sfera d’azione comparabile a quella degli esecutivi delle maggiori democrazie europee. Ma la situazione è alquanto diversa. Anche nei momenti in cui il governo è stabile il presidente interviene per giudicare, ammonire, esortare, pungolare, manifestare sentimenti e convinzioni. Come appare evidente da questo libro, la storia della Repubblica è anche una storia di «esternazioni». Cominciarono con Luigi Einaudi, proseguirono con Gronchi e Saragat, divennero innumerevoli e tribunizie con Pertini, clamorose e scandalose con Cossiga, arcigne con Scalfaro, pedagogiche con Ciampi, politiche, sociali e istituzionali con Napolitano. Il presidente non è soltanto il simbolo dell’unità nazionale e il ricorso d’ultima istanza per i nodi che governo e partiti non riescono a sciogliere. È continuamente in scena nel dibattito nazionale, è chiamato in causa, è invitato a parlare e ad agire. La sua popolarità è tanto maggiore quanto più è inceppata la macchina della democrazia e quanto più grande è il malumore del Paese per coloro che lo governano. Non è sorprendente che Giorgio Napolitano, dopo le elezioni dello scorso febbraio, sia subito apparso a molti come l’unico possibile arbitro della crisi.
Esiste quindi in Italia una istituzione che cresce nella stima generale quando le altre perdono credito e rispettabilità , che deve la sua fortuna alla sfortuna dell’esecutivo. Sollecitata dalla sua popolarità , la presidenza risponde all’appello del Paese moltiplicando i suoi interventi e crea così l’illusione che il Quirinale possa risolvere i problemi della nazione. Non è necessario disconoscere i meriti di molti presidenti per constatare che una tale situazione rischia di pregiudicare la governabilità del Paese e il buon funzionamento delle sue istituzioni. Che cosa accadrebbe se il capo dello Stato cercasse d’imporsi contro la volontà del governo o del Parlamento? Che cosa accadrebbe se il governo rivendicasse il diritto di decidere e il conflitto paralizzasse il Paese? In Europa non mancano modelli a cui ispirare una riforma: la Germania e la Spagna, se vogliamo rafforzare il ruolo del premier; la Francia, se vogliamo rafforzare quello del capo dello Stato. Dopo quello che è accaduto negli scorsi mesi vorremmo che di questo si occupasse, anzitutto, la legislatura appena cominciata.
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