by Sergio Segio | 3 Aprile 2013 7:01
ROMA — Il Quirinale è in bilico tra un presidente di «garanzia» e un presidente «per caso», tra un capo dello Stato espressione di una larga maggioranza parlamentare, e un inquilino del Colle subìto più che scelto da Pd e Pdl, eletto di misura dopo estenuanti votazioni, e frutto di deboli patti maturati nel segreto dell’urna. Il Quirinale è in bilico, e in bilico sono anche loro: perciò Bersani e Berlusconi devono vedersi o non ne escono, anzi rischiano di uscire entrambi politicamente sconfitti dalla corsa. Perciò è scontato che il Cavaliere accetterà l’invito del leader democratico, un faccia a faccia che peraltro aveva proposto al capo del centrosinistra all’indomani del risultato elettorale, quando lo chiamò per invitarlo al governo di grande coalizione.
Da allora però le loro posizioni non sono cambiate, semmai si sono cristallizzate. Certo, il rendez vous che Napolitano auspicava può essere un segnale, sebbene la mossa di Bersani sembri avere un obiettivo tattico e a uso interno: sbarrare il passo alle trattative parallele di quella parte del Pd — da D’Alema a Franceschini a Enrico Letta — che si oppone alla sua linea e vorrebbe invece aprire il dialogo con Berlusconi sul Quirinale (e poi sul governo). Insomma, sarebbe l’incontro tra due debolezze, tra chi — come il Cavaliere — teme sul Colle la saldatura di una maggioranza giustizialista, e chi — il leader democrat — non vuole consegnarsi alle elezioni senza passare da Palazzo Chigi.
E non c’è dubbio che la corsa per il Quirinale avviene nel pantano, «siamo impantanati — dice il centrista Cesa — e temo che non sarà come il Conclave». D’altronde, attorno alla presidenza della Repubblica si gioca la vera sfida di questa legislatura nata moribonda, e le cui condizioni sono peggiorate dopo le schermaglie tattiche sulla formazione del governo. Ce n’è traccia nella forte irritazione di Napolitano dopo le consultazioni, nei commenti che — venerdì scorso — sono seguiti ai suoi incontri con le delegazioni dei partiti: con il Pd additato perché «si è fatto mettere nell’angolo dal Pdl», con il Pdl criticato perché «mi hanno raccontato di avere un programma economico simile a quello del Pd», con i Cinquestelle definiti «inaffidabili» perché «dicono una cosa in privato e un’altra in pubblico».
La sorprendente soluzione dei «saggi», che «viola la Costituzione» secondo il democratico Emiliano (e non solo secondo lui), ha posto fine alle manovre dilatorie dei partiti, che ipocritamente avevano continuato a duellare sul governo avendo in mente l’obiettivo del Colle. Ora che lo schema si è ribaltato, la prima vittima è Berlusconi. Se c’è un punto fermo, infatti, è che l’opzione di un candidato di centrodestra al Quirinale è di fatto già esclusa. Non che avesse molte chance, due settimane fa Bersani aveva respinto le richieste del Pdl: «Gianni Letta? Anche volessi, come riuscirei a far convergere quattrocento voti del Pd su questo nome? Non è possibile».
Il leader democrat ieri ha chiuso definitivamente la pratica, avanzando in cambio l’offerta di una rosa di nomi di «area centrosinistra» da cui scegliere il futuro presidente. L’identikit del candidato «bipartisan» — tracciato dal bersaniano Gotor — sarebbe quello di una «personalità dalla forte sensibilità istituzionale, con buona dose di conoscenza politica e abilità negoziale». Di nomi ne sono stati fatti tanti, da Amato a Marini, se non fosse che il Cavaliere non accetta di far partire il governo Bersani, «in attesa, tra un anno, quando la Convenzione delle riforme sarà partita e il clima politico sarà migliorato, di governare insieme», come ha promesso il segretario del Pd.
La minaccia altrimenti è quella di portare Prodi al Colle, dentro uno schema che prevede i voti di un pezzo di centro e di una schiera di Cinquestelle, pronti a votare per il fondatore dell’Ulivo, siccome nell’urna Dio li vede Grillo no. A meno che lo stesso Grillo, conscio che il suo gruppo è il ventre molle in Parlamento, non giochi d’anticipo. È questo un rischio per Berlusconi ma anche per Bersani: cosa farebbe il Pd se M5S dovesse iniziare a votare subito per personalità come Rodotà e Zagrebelsky? Riuscirebbe, senza intese su altri candidati e dopo numerose votazioni a vuoto, a resistere all’attrazione fatale?
Ecco perché nell’incertezza, in molti nel Pd come nel Pdl ritengono che — senza un accordo — Napolitano sarebbe la soluzione di emergenza. Non a caso Berlusconi la tiene come carta di riserva. A quel punto, se formalizzasse la proposta, come potrebbe Bersani dire di no? Non è chiaro se la vivrebbe come un’opportunità o una minaccia, ma una cosa è certa: come raccontano gli sherpa di Pdl e Scelta civica, «negli incontri con noi, gli emissari di Bersani non fanno mai il nome di Napolitano».
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