by Sergio Segio | 23 Aprile 2013 6:33
ROMA — Per il Movimento 5 Stelle non sono proprio esaltanti le notizie uscite dalle urne del Friuli che, nelle speranze di Beppe Grillo espresse appena 48 ore fa, avrebbe dovuto essere «la prima regione governata dal M5S». Così, la lunga marcia nel deserto che i parlamentari grillini si apprestano a fare dai banchi dell’opposizione si fa più faticosa: e anche l’immagine plastica dei deputati e dei senatori M5S, che da soli non applaudono il presidente Giorgio Napolitano neanche quando cita i «nostri ragazzi» morti in Afghanistan, dà l’idea di una nuova fase molto complicata per la forza politica che si presenta come unica artefice del rinnovamento: «Quello di Napolitano è stato un discorso politico, in barba al ruolo di garanzia, e noi non accettiamo lezioni sull’uso del Parlamento», dicono i neo onorevoli Roberta Lombardi e Vito Crimi al capo dello Stato che alla Camera ci è entrato per la prima volta 60 anni fa.
La linea, anche ieri, l’ha dettata Beppe Grillo, che dopo il mancato comizio in piazza e il flop della manifestazione grillina, si è fatto sentire dal blog: «La Repubblica, quella che si dice democratica e fondata sul lavoro, sabato è morta». Grillo ci va giù duro contro Napolitano e l’«inciucio»: «Pensi al sorriso raggiante di Berlusconi (che ieri gli ha dato dello squilibrato, ndr) dopo la nomina di Napolitano e ti domandi: come è possibile tutto questo? Pensi ai processi Berlusconi, a Mps, alle telefonate di Mancino, ai saggi e alle loro indicazioni per proteggere la casta. Sai che alcuni di loro diventeranno ministri e ti viene lo sconforto». La previsione di Grillo sul governo è tranciante: «Entro alcuni mesi l’economia presenterà il conto finale e sarà amarissimo» e nulla potranno fare «un governissimo e le sue agende Monti e Napolitano». Per il comico genovese, al Quirinale avrebbe dovuto andarci Stefano Rodotà che, ora, potrebbe diventare il candidato del M5S da presentare alle consultazioni che Napolitano sta per aprire.
Con queste premesse, i grillini non potevano riservare un’accoglienza minimamente cordiale al presidente Napolitano. Hanno incrociato le mani dietro la schiena anche quando il capo dello Stato ha detto, rivolto idealmente a loro, di apprezzare «l’impegno con cui» il Movimento «ha mostrato di volersi impegnare alla Camera e al Senato: quella è la strada di una feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento». A questo passaggio, i grillini hanno vacillato: alcuni hanno applaudito, altri hanno tirato per la giacca quelli che lo facevano.
E ora che si marcia verso una routine del lavori parlamentari, il M5S ha chiesto a gran voce la presidenza delle commissioni di garanzia: «Ora che loro sono maggioranza, a noi spettano Copasir e Vigilanza Rai. Non molliamo», dice il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Peccato che all’opposizione c’è anche Sel (che però non ha ancora trovato un candidato per il comitato che controlla i servizi segreti) e potenzialmente pure Fratelli d’Italia di La Russa che ha nel suo curriculum «le stellette» di ex ministro della Difesa. Tuttavia al M5S, che è il secondo partito, spetterebbero le due poltrone di garanzia e controllo che nella scorsa legislatura furono accaparrate dal Pd (D’Alema e Zavoli).
Nel giorno del mancato applauso a Napolitano, il M5S ha visto bene di organizzare il processo al senatore Marino Mastrangeli, reo di aver partecipato a troppi talk show. Il verdetto: espulso — 62 favorevoli, 25 contrari, 3 astenuti — al termine di un dibattito rovente tanto che il collegamento streaming è stato interrotto quando la discussione ha preso una brutta piega. Ora deciderà la Rete (il M5S ancora non ha comunicato il numero dei votanti per le Quirinarie) se espellere o no l’ex poliziotto Mastrangeli, pensionato quando non aveva ancora 40 anni. Ma lui non ci sta: «Io sono come Bruce Lee, ne atterro 50 alla volta. Non è che per 5 anni mettiamo la mordacchia ai parlamentari».
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