Guantanamo non è un blog

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In questi giorni in cui si svolge a Perugia il Festival internazionale di giornalismo (da oggi al 28 aprile la VII edizione, ndr) dove la stella è Yoani Sanchez, la blogger cubana che, come hanno mostrato i documenti di Wikileaks, lavora esplicitamente per il Dipartimento di Stato americano e per le agenzie della Cia, un recluso in attesa di processo da dieci anni, con un magistrale articolo di opinione ospitato sul New York Times, denuncia la perdurante violazione dei diritti umani nella base di Guantanamo da parte dell’Amministrazione nordamericana (vedi anche l’articolo «Non moriremo in silenzio» di Patricia Lombroso sul manifesto del 16 aprile scorso, ndr). Una violazione alla quale il Presidente Obama aveva promesso, nel suo precedente mandato, di porre fine, senza essere riuscito però a mantenere la parola.
Anzi, È di questo inizio d’anno la documentata denuncia di Amnesty International che chiede al presidente Obama di rimediare ai fallimenti sui diritti umani del suo primo mandato e lo sollecita a riprendere in considerazione la promessa fatta nel 2009 di chiudere il centro di detenzione e «di impegnarsi a rilasciare i detenuti o a sottoporli a processi equi». Non ha avuto risposta. Eppure Amnesty ricorda che oggi a Guantanamo vi sono ancora 166 detenuti e che dal 2002 la prigione ne ha ospitati 779, la maggior parte dei quali vi ha trascorso diversi anni senza accusa né processo.
Per questo Rob Freer, ricercatore di Amnesty International sugli Stati Uniti ha scritto: «La pretesa del governo di Washington di essere il paladino dei diritti umani non è compatibile con l’apertura del carcere di Guantanamo, le commissioni militari, l’assenza di assunzione di responsabilità  e la mancanza di rimedi per le violazioni dei diritti umani commesse da funzionari statunitensi, tra cui la tortura e le sparizioni forzate che costituiscono cri- mini di diritto internazionale».
Parole che pesano, se si considera anche che il presidente aveva ordinato la fine dell’uso delle cosiddette tecniche «rinforzate» d’interrogatorio da parte della Cia (eufemismo per torture come il waterboarding, l’annegamento simulato) e la chiusura dei cosiddetti «siti neri», centri segreti di detenzione diretti dall’intelligence statunitense. Una realtà  inquietante, denunciata dopo l’11 settembre da The Nation, la prestigiosa rivista di geopolitica degli intellettuali progressisti nordamericani, che chiedeva notizie al governo Bush di alcuni cittadini americani di fede musulmana di cui, allora e in seguito, non si è più saputo nulla.
Gli Stati Uniti, come abbiamo scritto anche su Latinoamerica, hanno ignorato l’appello di Amnesty ma è palese che non hanno più l’autorità  morale (se mai l’hanno avuta) per fare lezione di diritti umani a qualcuno. 
È evidente, anche, che i mezzi d’informazione occidentali tengono in considerazione i rapporti di Amnesty solo quando servono a trovare un minimo di scusa per attaccare a comando, nella ormai ribelle America Latina, paesi come Cuba, il Venezuela, l’Ecuador, la Bolivia, insofferenti alle pretese dell’economia neoliberale e perfino il Brasile, ormai quinta potenza economica del globo, o l’Argentina che nazionalizza il suo petrolio, riprendendoselo dalla Spagna, e vara una legge sui media, in particolare sulla televisione, così democratica e d’avanguardia da far risultare ridicola la nostra presunta libertà  d’informazione.
I rapporti di Amnesty sono invece ignorati quando, solitari, mettono in discussione le violazioni dei diritti umani fatte dagli Stati Uniti o da paesi come Colombia e Messico, paladini di ogni politica nordamericana, anche la più discutibile, pur essendo diventati ultimamente dei mattatoi con decine di migliaia di morti e desaparecidos e milioni di desplazados per presunte guerre dei governi al narcotraffico. A tutti i mezzi d’informazione italiana, per esempio, è sfuggito che il 18 dicembre scorso la Corte Interamericana per i diritti umani ha condannato la Colombia per il bombardamento terrorista sul municipio di Santo Domingo (provincia di Arauca), compiuto dalla Forza aerea colombiana (Fac) e in cui morirono 17 persone (fra cui 6 bambini) e 27 rimasero ferite. 
Questo bombardamento indiscriminato che ricorda quello nazista di Guernica, oltre a ricordare le responsabilità  terroristiche del regime colombiano evidenzia le responsabilità  e l’omertà  dei media internazionali nel coprire determinati crimini di stato. A loro interessa, con molta malafede, occuparsi del dissidente cubano che fa lo sciopero della fame (ma non di quello islamico di Guantanamo) o di concedere le luci della ribalta a Yoani Sà¡nchez (e non ai giornalisti che con il loro lavoro rischiano la vita in paesi filo-Usa come Messico e Colombia).
È eticamente accettabile che una superpotenza cerchi, da decenni, con ogni mezzo (perfino il terrorismo) di sovvertire il sistema politico di un altro paese più piccolo, solo perché questo ha scelto un modello di società  che non piace e non conviene alla stessa superpotenza? Ed è accettabile che questa prepotenza venga avallata da chi si dice dissidente, ma in realtà  ha scelto di farsi comprare? A parti invertite, chi facesse questa scelta sarebbe, negli Stati Uniti (stiamo parlando di questa superpotenza) condannato a decenni di galera per alto tradimento.
Ma nel mondo che si autodefinisce democratico i giornalisti non sentono neanche lontanamente questa contraddizione e questa immoralità .
I nostri media leggono e rilanciano solo le promozioni messe in piedi da Freedom House, megafono della Cia che ha addirittura la moglie dello zar dell’intelligence Usa John Negroponte fra i sostenitori fissi dell’agenzia, o le campagne portate avanti da Reporters sans frontiéres, sovvenzionata anch’essa da UsAid e Ned (National endowment for democracy), le agenzie di propaganda della stessa Cia.
Eppure le malefatte di queste fabbriche di manipolazioni e di menzogne ogni tanto bucano l’omertà  e arrivano a metterci davanti a quel valore che chiamiamo etica.
Un’azienda americana che forniva traduttori (si fa per dire) all’esercito nordamericano in Iraq, è stata condannata dalla Corte federale di Greenbelt in Maryland, a risarcire con 5,3 milioni di dollari 71 ex prigionieri iracheni, torturati nel carcere di Abu Ghraib e in altri centri di detenzione a conduzione americana. È il primo caso in cui un’azienda privata degli Stati Uniti, la cui sussidiaria è stata accusata di aver collaborato alla tortura dei detenuti ad Abu Ghraib, ha accettato di patteggiare per chiudere la causa. La Engility Holding, che ha sede a Chantilly in Virginia, ha così tacitato le richieste delle 71 vittime rinchiuse tra il famigerato carcere a Baghdad e in altri centri dell’Iraq.
Durissimi gli episodi contestati dai legali nelle udienze: finte esecuzioni con pistole puntate alla tempia, prigionieri sbattuti contro un muro fino a perdere i sensi, oppure minacciati di stupro mentre erano incappucciati e incatenati, costretti a bere così tanta acqua da vomitare sangue. Molti ex detenuti accusano di essere stati più volte stuprati, picchiati e tenuti nudi per lunghi periodi di tempo.
Dove sono i media italiani ed europei, difensori dei diritti civili e della democrazia, tanto critici con i cubani o con Chà¡vez accusati di “sprecare” il denaro per maestri, medici e ricercatori?
Come i nostri lettori ricordano, lo scandalo delle torture ad Abu Ghraib scoppiò nel 2004. Le foto con i prigionieri incappucciati, incatenati o tenuti al guinzaglio da sodati Usa fecero il giro del mondo, scioccando la comunità  internazionale. Alcuni congressisti democratici chiesero le dimissioni del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, che dovette più volte rispondere sugli abusi davanti al Congresso. E già  all’epoca vennero accusati di tortura anche agenti di sicurezza privati che avevano il compito di “facilitare” (diciamo così) gli interrogatori.
Le ricordano queste realtà  di Abu Ghraib i giornalisti che blaterano – quasi sempre a sproposito – di diritti umani? Forse sì, ma il coraggio, sosteneva Manzoni, non si può comprare in una bottega.


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