GLI ULTIMI GIORNI DI GOBETTI
Piero Gobetti morì a Parigi alla Clinique de Paris, al Bois de Boulogne, nella notte fra il 15 e il 16 febbraio del 1926. Una crisi cardiaca sopravvenuta a una bronchite, e alle bastonate inflittegli nel settembre del ’24 dagli squadristi fascisti a Torino, lo uccideva ad appena 25 anni. Morì solo, perché i suoi amici parigini non poterono entrare in ospedale durante quella notte. A sapere per primi del decesso furono Luigi Emery e Federico Nitti, gli italiani che la sera precedente, verso le 23, erano andati alla clinica del Bois de Boulogne per avere notizie. Non avevano potuto vederlo; un custode, però, li aveva rassicurati sulle condizioni di salute. Un’ora dopo, a mezzanotte, non ci fu invece più niente da fare. Emery, i Nitti, come Giuseppe Prezzolini, avevano assistito Gobetti durante il breve soggiorno nella capitale francese, dove l’intellettuale antifascista era andato in esilio partendo da Torino la mattina del 3 febbraio. Toccò a Emery, giornalista e traduttore, il triste compito di avvisare Giacomo Prospero e
Olimpia Biacchi, i genitori di Ada, la moglie di Piero. Non ebbe tuttavia il coraggio di annunciare brutalmente la scomparsa dell’autore di La rivoluzione liberale.
Così si spiega il testo del telegramma inviato a Torino, nel pomeriggio del 16 febbraio. Scrisse: «Piero gravissimo. Venite subito. Emery». Ma Piero era già morto.
Il documento, che qui pubblichiamo insieme ad altre carte inedite e poco note, viene presentato il 25 aprile a Parigi nell’ambito di un convegno su Piero e su Ada, promosso dal Centro studi Piero Gobetti di Torino e dalla Maison d’Italie alla Cité internationale universitaire de Paris. Proprio gli ultimi giorni di vita di Piero sono al centro dell’incontro parigino. Grazie al lavoro di Pietro Polito, direttore del Centro Gobetti, e di Pina Impagliazzo, per la prima volta saranno messi assieme e incrociati materiali d’archivio, lettere e testimonianze di allora sui tredici giorni dell’esilio e dell’agonia del giovane studioso di straordinaria e precocissima genialità ,
che lodava l’opera del conte Camillo Benso di Cavour e non aveva esitato a collaborare con i comunisti dell’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci. Ne verrà fuori un “racconto a due voci”, con cui Polito e Impagliazzo vogliono dare risalto alla “epicità di una storia”, come ricordano, che nella sua asciuttezza tutta piemontese, nell’epilogo tragico, fu quella di Gobetti.
Il telegramma di Emery non è l’unica novità , a livello di documentazione, che caratterizza la giornata di studi del 25 aprile. C’è un altro telegramma inedito: è quello spedito da Giacomo Prospero alla moglie nel pomeriggio del 17 febbraio 1926. Il padre di Ada aveva raggiunto Parigi con Giovanni Battista Gobetti, il papà di Piero, poche ore prima, verosimilmente dopo avere ricevuto il messaggio drammatico di Emery. Nel dolore e nella fretta posticipò la morte di Piero allo stesso 17 febbraio. Scrisse: «Piero spirato stamani. Sono con Battista. Avverti Ada con precauzione. Saluti Giacomo». Ada, a Torino con il figlio Paolo nato il 28 dicembre del ’25, sapeva già che cosa era successo? Lo aveva intuito, perlomeno? È possibile che qualche amico o amica di Parigi l’avesse avvertita? Non è da escludere. In ogni caso il telegramma di suo padre
era l’atto ufficiale, per così dire, che sanciva la lacerazione definitiva, per usare le parole di Ada riferite a Piero, della “tua breve esistenza”.
Il convegno sarà anche l’occasione per ripercorrere i mesi che precedettero la partenza di Gobetti per Parigi. Le persecuzioni patite da parte delle autorità fasciste, che nel novembre del ’25 gli inibirono qualsiasi attività pubblicistica ed editoriale, gli fecero cambiare idea rispetto a quanto, a settembre, aveva scritto a Emery. In una lettera del 10 settembre, citata da Ersilia Alessandrone Perona nel volume Piero Gobetti e la Francia (Franco Angeli, 1985), l’editore delle riviste Energie Nove e Il Baretti gli diceva a proposito della sua volontà di fondare una casa editrice in Francia: «Non farò mai della propaganda italiana. Credo che solo da Parigi, solo in francese, solo con la solidarietà dello spirito francese un italiano possa fare con utilità un’opera pratica di intelligenza europea. S’intende senza chauvinisme francese». E, più avanti, aggiungeva: «D’altra parte la nostra azione in Italia diventa sempre più difficile e provvisoria. Hai saputo che il nostro giornale messo su buone basi non si è poi potuto fare». Ciononostante, aggiungeva, «resterò in Italia sino all’ultimo. Sono deciso a non far l’esule. Perciò incomincio a dividermi tra Torino e Parigi». Ma le diffide e le ingiunzioni del prefetto e del questore di Torino, fedeli all’ordine di Mussolini del primo giugno del ’24 di «rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore governo e fascismo », precipitarono tutto. Come i patrioti del Risorgimento e dei moti liberali piemontesi del 1821, da lui acutamente indagati, Piero, a quel punto, dovette abbandonare l’Italia. In una lettera del dicembre del ’25 a Giustino Fortunato scrisse: «Parto per Parigi, dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è stato interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo e della politica spicciola, come i granduchi spodestati in Russia. Vorrei fare un’opera di cultura nel senso del liberalismo europeo e della rivoluzione moderna». C’è da chiedersi che cosa sarebbero stati la cultura italiana e il liberalismo europeo se Gobetti non fosse morto in quel febbraio del 1926.
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