Due marce due misure

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E, per evitarlo, ha chiamato a raccolta, prima a Roma e poi a Bari, centinaia di migliaia di cittadini che ha arringato con frasi tipo «Bersani non può decidere nel buio delle stanze buie con Vendola e Monti. Se lo farà  sappia che troverà  pane per i suoi denti in Parlamento e nelle piazze». Ciò è valso al suo partito, ventiquattro ore dopo la marcia su Milano, un pronto colloquio con il capo dello Stato (di allora e di oggi) che, dopo una rituale espressione di rammarico per «la manifestazione senza precedenti», si è premurato di auspicare che i pm non si attribuiscano missioni improprie e di dichiarare «comprensibile» la preoccupazione del Popolo della libertà  «di veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già  in pieno svolgimento» (così sostanzialmente chiedendo – cosa, poi, puntualmente avvenuta – il rinvio dei processi). E, successivamente, è valso allo stesso Berlusconi il rientro nel gioco politico (da cui sembrava escluso), un ruolo preminente nella investitura del vecchio-nuovo presidente, il generale riconoscimento, da parte delle forze politiche e dei media, del suo rango di statista.
Qualche giorno dopo, mentre veniva decisa la rielezione del presidente Napolitano, Beppe Grillo ha gridato: «Quattro persone: Napolitano, Bersani, Berlusconi e Monti si sono incontrate in un salotto e hanno deciso di mantenere Napolitano al Quirinale… È in atto un colpo di Stato. Pur di impedire un cambiamento sono disposti a tutto», invitando, quindi, alla «mobilitazione popolare» e aggiungendo: «Dobbiamo essere milioni. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese». Ne sono seguite una generale levata di scudi, l’evocazione di gravi problemi di ordine pubblico e una gara, che ha visto in primo piano esponenti del Pd e giornali progressisti, a chi trovava i termini più sdegnati per qualificare Grillo: «pericoloso capopopolo», «fascista buffo», «fomentatore di odio», «eversore», «indegno» e via seguitando. 
Anch’io, come Rodotà , sono contrario – mi sembra quasi offensivo doverlo dire – a ogni tipo di «marcia su Roma» (termine, peraltro, che non ho trovato nelle dichiarazioni attribuite a Grillo). E – aggiungo – non sono un grillino dell’ultima ora ché, al contrario, trovo confermate nelle vicende di questi giorni le molte ambiguità  che, a fianco degli indubbi meriti, caratterizzano il Movimento 5Stelle. Ma proprio non mi riesce di capire come le stesse parole siano oggetto di valutazioni opposte a seconda di chi le pronuncia (statista l’uno, eversore l’altro…) e meritino, volta a volta, la premurosa interlocuzione con il capo dello Stato e l’estromissione da ogni dialogo politico. Evidentemente il criterio di giudizio non è la natura dei fatti ma solo la convenienza politica. Nella mia ingenuità  non capisco come mai questo atteggiamento sia così diffuso.
Non capisco, e all’incomprensione si accompagna anche il dubbio di una avvenuta trasformazione genetica di chi occupa, in Parlamento, gli scanni disposti a sinistra. Un tempo la sinistra (quella politica, non quella designata dalla geografia parlamentare) considerava la piazza – cioè gli elettori, i cittadini, il popolo – la fonte della propria legittimazione e il necessario alimento dell’attività  parlamentare. Tanto più nei momenti delicati, quando in Parlamento si consumano salti di sistema. Mi limito a ricordare il caso esemplare dell’approvazione della legge truffa, allorché il voto fu accompagnato da uno sciopero generale che paralizzò il Paese (e la democrazia, lungi dall’esserne indebolita, ne uscì rafforzata). Oggi tutto è cambiato, e non certo per una diversa entità  delle ferite inferte alle istituzioni, come ha dimostrato ieri l’altro su questo giornale Marco Revelli. Ciò che è cambiato è la considerazione della piazza, degradata a pericolo immanente e a fonte di paura per i molti parlamentari usciti dal Parlamento da porte secondarie o su auto blindate ovvero rimasti nel palazzo sino a notte fonda. 
C’è materia per una riflessione, magari seguendo le sollecitazioni di G. Zagrebelsky che, in un libro uscito in questi giorni per le Edizioni Gruppo Abele (Vivere la democrazia, a cura di E. Gallina), evoca la degenerazione del nostro sistema e descrive la fine della prima Repubblica come «il crollo di un sistema oligarchico che non riusciva più a estendersi e a inglobare, a creare giri e a estenderli, così provocando la reazione degli esclusi» e segnala che, forse, «prima, seconda o terza che sia, la Repubblica è sempre fondamentalmente la stessa e che non c’è nulla di nuovo ma sempre e solo una lotta per la successione».


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