Dopo un capo dello Stato condiviso le elezioni sono più lontane

by Sergio Segio | 21 Aprile 2013 6:22

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C’erano almeno tre obiettivi da raggiungere: eleggere un capo dello Stato condiviso da maggioranza e opposizione; arginare e fermare la spinta a elezioni anticipate; e formare un governo che rifletta la volontà  di superare una fase di scontro durato troppo a lungo, con risultati negativi per l’Italia. Il primo risultato è stato ottenuto ieri pomeriggio con la rielezione di Giorgio Napolitano con 738 voti; ed è la prima volta che accade: segno di una situazione drammatica, nella quale non solo i partiti ma il sistema hanno rischiato l’osso del collo. Gli altri due sono da costruire, ma sembrano esistere le premesse perché questo avvenga.
Lo sconfitto sancito da questa elezione è Pier Luigi Bersani, benché in extremis sia stato proprio il segretario, insieme al suo vice Enrico Letta, a offrire formalmente la ricandidatura a Napolitano. Lo spappolamento del suo partito è il prodotto di una strategia maldestra ma non solo. Bersani paga anche responsabilità  altrui. Ma esiste anche un secondo perdente, e si chiama Beppe Grillo. L’ex comico e leader del Movimento 5 Stelle ha reso sterile la forza parlamentare ottenuta il 24 e 25 febbraio, chiudendosi in un isolamento tipico di un estremismo che sa distruggere, non costruire. Di fronte alla vittoria di Napolitano i suoi parlamentari sono rimasti seduti.
Per il resto si sono limitati a urlare e insultare, confermando di avere una visione singolare della democrazia. Grillo non ha trovato di meglio che organizzare un’irresponsabile «marcia su Roma» gridando al colpo di Stato; e aizzando la piazza contro la decisione presa dalle Camere in seduta comune, nella quale il suo candidato Stefano Rodotà  ha preso 217 voti rispetto ai 738 del presidente della Repubblica appena rieletto: più di quelli raccolti da Napolitano nel 2006. La pericolosità  della reazione dell’ex comico è stata sottolineata proprio da Rodotà , il quale ha dichiarato di essere «contrario a ogni marcia su Roma».
Il solo fatto che l’abbia definita tale, echeggiando quella fascista del 1922, è suonato come dissociazione del giurista. Tanto che in serata Grillo ha annullato la sua presenza. Ma la deriva di piazza che il Movimento 5 Stelle tenta di alimentare pone problemi seri. Dovrebbe indurre i partiti a prendere atto di avere commesso errori a ripetizione: a cominciare dalla decisione di mantenere una legge elettorale dagli effetti pericolosi, dopo avere parlato di riforma per un anno. E lascia ferite profonde in una sinistra che si è sgretolata, e promette di rompersi in più spezzoni. Il Sel di Nichi Vendola è già  passato con Grillo, dopo essersi presentato alle urne col Pd: anche se critica le parole sul golpe.
Non solo. Un ministro del governo di Mario Monti, Fabrizio Barca, candidato a diventare segretario del Pd, si è dissociato dalla rielezione di Napolitano. Barca ha dichiarato a poche ore dal voto di ieri che bisognava puntare su Rodotà , in nome di una saldatura fra Pd, Sel e grillini. E Bersani è dimissionario, mentre la resa dei conti rischia di assumere i contorni di una scissione in tempi brevi. Chi invece esce rafforzato è Silvio Berlusconi, rimesso in gioco soprattutto dagli errori avversari. Il leader del centrodestra ha puntato dall’inizio su una candidatura trasversale, con la sponda di Scelta civica. E alla fine l’ha spuntata, chiedendo per primo a Napolitano di prendere in mano una crisi che si stava avvitando pericolosamente.

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