by Sergio Segio | 3 Aprile 2013 7:27
Nulla di preoccupante: la lingua è da sempre un materiale permeabile e sarebbe dura argomentare che il famoso algoritmo non ha modificato le nostre esistenze. Ma per capire lo spirito dei tempi è più interessante un aneddoto di pochi giorni fa: «Ogooglebar» era uno dei neologismi papabili per la lingua svedese. In italiano sarebbe «nongooglabile». A memoria di filologo solo la «nonviolenza» — parola scritta tutta attaccata — aveva assunto nobiltà di concetto a sé stante e non solo come negazione dell’opposto. Alla fine il termine non è stato selezionato a causa di una protesta diplomatica giunta dalla stessa Google: nella definizione («Qualcosa che non è possibile trovare su Internet con un motore di ricerca») non si citava espressamente la società . Ogooglebar continuerà probabilmente ad essere usato dai ragazzi svedesi anche se per ora non avrà il suo lemma nei dizionari scandinavi. Ma, dilemmi da Crusca a parte, ciò che colpisce è che nell’ottica di chi gestisce la società il mondo si divida in due: cosa c’è dentro Google e cosa resta fuori. Google contro Nongoogle. È quello che è già successo in Francia dove la società ha dovuto trovare un accordo con gli editori, mentre in Germania il braccio di ferro continua. Un copione che sembra ora doversi ripetere con il nuovo fronte composto da sei Paesi sul tema della privacy.
Il colosso controlla di fatto tutto ciò che è tramutabile in simboli e dunque digeribile da un server. Oggi come oggi quasi tutto tranne le professioni artigiane. La società digerisce libri, news, giornali, musica, giochi, passatempi, applicazioni ma anche cose più intangibili e più importanti come la privacy. Non produce il sapere ma lo controlla: ne decide la gerarchia nell’era della confusione multimediale. Decide con il suo algoritmo cosa è degno di essere riportato in soli 18 centesimi di secondo e cosa no. E, anche se è innegabile la presenza scenica nelle nostre vite di altre società come Apple, la caratteristica di Google è la pervasività . La società fin dagli inizi ha scelto di essere ovunque, multipiattaforma, multidevice. E la ragione è presto detta: il suo core business, cioè il cuore del proprio fatturato, è la pubblicità online. Tutto è regalato ma in realtà tutto è pagato da uno spot universale del quale siamo in parte attori inconsapevoli.
Google sembra il «Blob», il fluido del film horror del 1958 diretto da Irvin Yeaworth. Ma decidere scientemente di restarne fuori è una partita persa: mentre stavo scrivendo non ricordavo l’anno e il regista di Blob. E, chiaramente, ho «googlato» traendone una soddisfazione quasi intellettuale, come se il motore di ricerca fosse il naturale complemento per potenziare la mia mente e la mia memoria.
Provate ad immaginare un thriller in cui le forze del male dovessero spegnere i server di Mountain View. Google è un po’ la nuova rete elettrica. Per degli europei che si cullano ancora nell’Umanesimo e nel Rinascimento è difficile comprendere quale sia la molla che muove i due fondatori, Larry Page e Sergey Brin, ormai padri di un’intera generazione «G» ben più trasversale di qualunque «X», «Y» o «Z». La chiave sta nelle risorse infinite: sono le regole a seguire l’innovazione, non il contrario. Basterebbe andare a guardare il progetto (sempre Google) di un’automobile che si guida da sola che la California sta già sperimentando.
È un po’ come se la società avesse già immaginato un futuro e a noi non restasse che cercare di prenderne atto. Siamo dunque sconfitti? Forse no perché spesso commettiamo l’errore di guardare a questi fenomeni come individui. Authority, governi, alleanze tra Paesi. È questa la dimensione giusta del confronto ed è giustificata perché le mosse di un impero così vasto non sono a somma zero. Va dato atto alla società di aver generalmente migliorato gli ambienti con i propri ecosistemi. Don’t Be Evil è il motto che anima da sempre le sue scelte. Eppure il mondo è banalmente un trade off tra bene e male: il genoma umano in Rete sarebbe un potente strumento per la ricerca scientifica. Ma ci renderebbe più fragili. Una guerra sconfiggerebbe tutti. Meglio lasciar lavorare le nuove «diplomazie».
Massimo Sideri
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