Destra contro sinistra tra veleni e sospetti

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Il magico «squadrone» di Pier Luigi Bersani, quello che passerà  alla storia accanto alla «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, ha fatto il record: è riuscito a perdere giocando da solo. Trascinando a fondo anche il suo storico portabandiera, Romano Prodi. Mostrando impudicamente agli occhi di tutti l’odio che divide le varie anime del movimento. Un odio calloso. Insanabile. Pre-politico. Così profondo, feroce da divorare non solo alleanze, amicizie, consuetudini ma il partito stesso.
Eppure non è solo quello intestino al Pd, ribattezzato subito su Twitter come «Partito Defunto», il solo fiotto di ostilità , rancore e disprezzo emerso ieri nella seconda e disastrosa giornata di votazioni per il Quirinale.
La candidatura del professore bolognese, incredibilmente salutata al mattino da un’investitura plebiscitaria e ipocrita «per acclamazione» da parte dei grandi elettori, ha infatti dato fuoco ad altre due polveriere. L’astio insanabile di Silvio Berlusconi verso il professore che aveva salutato come «un simpatico ciclista» ma dal quale era stato poi battuto per due volte. E nella scia di questo il livore dei più accaldati degli elettori di destra, pronti ad accorrere al primo fischio della piazza di fronte a Montecitorio per contestare nel modo più chiassoso la scelta della sinistra di abbandonare precipitosamente il tentativo di eleggere con Franco Marini un presidente il più possibile condiviso per puntare su quello che i berlusconiani vedono come il nemico numero uno.
«C’è da capirli», sospirava il radical-finian-montiano Benedetto Della Vedova, «In fondo si erano rassegnati già  a un presidente più o meno sinistrorso chiedendo una cosa sola: “tutti, meno Prodi”. E invece…». E più cresceva la folla invelenita, con lo sventolio di bandiere anche di Casa Pound, più montava l’apprensione dei prodiani: quante votazioni a vuoto potevano reggere dopo l’accumulo di errori di queste settimane, con la destra fuori dalle porte e quella massa tumultuante lì davanti decisa a impedire rumorosamente l’elezione di quel presidente accusato di essere «di parte»?
Immaginatevi l’amarezza di Giorgio Napolitano: aveva invocato, nella scia dell’esperienza fatta in questi anni, la scelta di un uomo sorretto dalla maggioranza più ampia. Ed ecco tornar fuori i veleni di questi ultimi due decenni: l’astio personale che divide i due storici leader della destra e dell’Ulivo, divisi da due diverse concezioni del mondo. L’odio di larga parte del popolo della sinistra verso il Cavaliere, mille volte maledetto per il conflitto di interessi e l’uso delle televisioni e i coinvolgimenti in tanti processi e Ruby, il Bunga-Bunga e le Olgettine. E di là  l’odio di larga parte del popolo di destra verso il professor Mortadella, additato come la causa di tutti i flagelli e le carestie in una contrapposizione ventennale in cui, per dirla con le parole di Giuliano Ferrara, si sono visti due estremismi: per gli uni il Paese luccicava, per gli altri mancava il latte per i bambini. Diceva tutto la maglietta indossata da Alessandra Mussolini: «Il diavolo veste Prodi».
Ma più di tutti, ieri, sgocciolavano i veleni dentro il Pd. Quelli accumulati per anni nelle guerre sotterranee, accanitamente negate e ridicolizzate con corredo di battute acide sui «cronisti che rimestano nella merda» (copyright dalemiano), tra pezzi e pezzi del vecchio Pci, pezzi e pezzi del vecchio Partito popolare con scomposizioni e ricomposizioni accumulatesi all’infinito.
Rancori antichi. Rivelati fino in fondo, ieri pomeriggio, nell’anonimato del voto segreto. Ma in qualche modo anticipati da due vecchi naviganti assai diversi. Come Pasquale Laurito, l’autore dalemiano della «Velina rossa», che ieri mattina esordiva così: «Meno male che Silvio c’è e Silvio ci sarà ! Questo è il solo commento che si può fare di fronte alle ultime decisioni del Pd di candidare il professor Romano Prodi alla presidenza della Repubblica, non rendendosi conto che questa candidatura provocherà  una spaccatura nel Paese. A questo punto solo il ricorso alle urne può decidere quale assetto politico e istituzionale sia necessario dare al Paese. Le elezioni potranno arginare i vari populismi che ormai sono penetrati nei partiti più seri e in particolar modo nel centro sinistra. Chi ha condotto finora in modo disastroso le operazioni del Pil di dovrebbe sentire il dovere, dopo aver fatto autocritica, di cedere ad altri la guida del partito».
E mentre Pasqualino ridacchiava soddisfatto davanti allo stupore di tutti, Paolo Cirino Pomicino, adagiato su un divano del Transatlantico, confidava: «Stanno lavorando per far fuori Prodi». «Chi?» «Vari. Dalemiani ma non solo». E spiegava: «Ricorda la storia dei “figli del dio minore”? I comunisti dicevano che noi dicì li vedevamo così. Fatto sta che ci si sono immedesimati. Sono loro che non si sentono in grado di navigare da soli in mare aperto come gli altri socialisti europei e vanno sempre in cerca di noi democristiani…» Franco Carraro, uomo di potere di lunghissimo corso, concedeva che, povero Bersani, «nella situazione in cui si è cacciato poteva proporre anche Papa Francesco ma i suoi si sarebbero spaccati comunque».
E mano a mano che dalla conta usciva in modo netto come ci fosse stata una specie di «carica dei 101» di franchi tiratori, con tanto di applausi della destra ai voti a D’Alema, appariva finalmente chiaro a tutti, anche a chi proprio non voleva vedere, che il partito nato dalla fusione dei Ds e della Margherita è irrimediabilmente in pezzi. «È la congiura dei Pazzi! La congiura dei Pazzi!», si sfogava il leader dei Moderati, Giacomo Portas, eletto nelle liste del Pd.
«Noi non c’entriamo, cercate i traditori da altre parti», metteva le mani avanti il vendoliano Gennaro Migliore: «Tutti i voti “R.Prodi” sono nostri. Sapevamo che qualcuno avrebbe cercato di buttarci addosso questa disfatta. Ma 44 voti avevamo le 44 li abbiamo dati a Prodi». «Questi qui saranno costretti a venire a chiedere nuovi di candidare Berlusconi», rideva Maurizio Gasparri. «Dilettanti!», commentava Gaetano Quagliariello con una smorfia.
E mentre i più noti esponenti del partito se la filavano via frettolosamente, decine di parlamentari restavano lì in Transatlantico, intontiti, gli occhi sbarrati, guardando nel vuoto.


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