“Cucchi ucciso dall’incuria dei medici il pestaggio in carcere non fu decisivo”
ROMA — Medici, infermieri, guardie carcerarie: ognuno dei dodici imputati ha una responsabilità nella morte — o, meglio, «nel non aver evitato la morte» — di Stefano Cucchi, il geometra romano di 31 anni deceduto il 22 ottobre 2009 nel reparto per i detenuti dell’ospedale Pertini, a sei giorni dal suo arresto. Tuttavia, secondo i pubblici ministeri Vincenzo Barba, titolare dell’inchiesta, e Francesca Loy «Cucchi è morto di fame e di sete, e non per le percosse subìte dalle guardie carcerarie durante la sua detenzione ». Una verità , quella sostenuta ieri dai magistrati nell’aula bunker di Rebibbia, che mette un punto fermo nel processo di primo grado. Calci e pugni, raccontati dal testimone gambiano compagno di cella di Cucchi Samura Yaya, colui che vide l’esito dell’aggressione e sentì quando Stefano cadde a terra, ritenuto dagli inquirenti «credibile», furono sferrati dagli agenti della penitenziaria perché il detenuto, una persona debilitata «di magrezza patologica, di quelle che abbiamo visto di rado, per lo più nei film che raccontano quanto successo ad Auschwitz », pretendeva «cure per la sua crisi d’astinenza in cui probabilmente si trovava». Un pestaggio su un fisico debole che però non ha contribuito alla morte, al contrario, secondo l’accusa, di quello che accadde dopo. L’indifferenza dei camici bianchi, la «sciatteria nel conservare una cartella clinica», probabilmente per coprire il pestaggio delle guardie carcerarie, ha infatti giocato un ruolo importante: medici e infermieri hanno «accettato il rischio» che il paziente, giudicato da loro «maleducato, cafone e scorbutico », e che rifiutava di nutrirsi, «potesse morire», annotando la circostanza nel referto ma guardandosi bene dell’intervenire.
Scuotono la testa amareggiati la mamma, il padre e la sorella di Stefano, presenti in aula, di fronte alla ricostruzione di uno dei casi giudiziari più discussi degli ultimi anni. Al termine dell’udienza, Ilaria Cucchi parla di «un processo ipocrita»: «I magistrati hanno dipinto mio fratello come uno zombie tossicomane. Sarà soddisfatto Giovanardi. Allora meglio che gli imputati siano assolti, piuttosto che considerati colpevoli per falsi motivi. La verità è che Stefano è stato massacrato da rappresentanti dello Stato. E non avrebbe mai conosciuto quei medici che lo hanno lasciato morire, se non fosse stato picchiato dagli agenti della penitenziaria. E poi poco contano le decine di testimonianze che affermano che Stefano stava bene e faceva tapis roulant un’ora prima del suo arresto. Poco conta che nelle sue urine non vi erano tracce di droga».
La requisitoria dei pm è granitica. Sono tre i punti chiave su cui ruota tutto l’impianto accusatorio di cui i giudici della III Corte d’Assise dovranno tener conto. Il primo: Stefano Cucchi fu picchiato mentre era in una cella di piazzale Clodio, in attesa del processo di convalida, perché chiedeva insistentemente farmaci contro la sua crisi di astinenza. Il secondo: fu ricoverato al Pertini pur essendo gravi le sue condizioni. Infine, la condotta del personale sanitario dell’ospedale nei cui confronti la accuse sono gravissime: «Non provvedono al trasferimento del ragazzo», «non gli danno neanche acqua e zucchero», «nessuno spiega a Cucchi cosa gli sta succedendo. Non gli prendono neanche i battiti del polso: una delle cose più banali». Tutti comportamenti «non colposi, ma chiari indici di indifferenza dei medici nei confronti del paziente». Così, al termine della ricostruzione dei fatti, durata cinque ore, arrivano le richieste di condanna dai 2 ai 6 anni e 8 mesi di reclusione per reati che vanno dalle lesioni all’abbandono di incapace. Per Aldo Fierro, direttore del reparto detenuti del Pertini, è stata chiesta la condanna più alta. A seguire Stefania Corbi, medico (sei anni), Silvia Di Carlo e Luigi Preite De Marchis, anche loro camici bianchi (cinque anni e mezzo), e Rosita Caponetti, che finiva il turno al momento del ricovero dell’uomo (due anni). Quattro anni per gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Due anni, invece, per gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici.
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