Come si fa un Presidente
MA C’È una cosa — una sola — che non cambia. Come si fa un Presidente. Cosa governa il gioco, quali sono le regole che portano alla nomina più ambita: quella che dura sette anni, un’eternità quando l’unità di misura del potere sono i giorni. Il segreto, quello, è intatto. Non c’è tsunami che possa violarlo. Il varco per entrare nella porta si trova all’incrocio fra il calcolo e il caso, fra l’esperienza e l’ignavia. Lo conosce Giulio Andreotti, venti volte ministro e sette presidente del consiglio, che aveva 29 anni quando all’alba dell’11 maggio 48 bussò alla porta di Luigi Einaudi, una villetta sulla Tuscolana, per convincerlo che il suo essere zoppo non gli avrebbe impedito di fare il presidente: “Del resto anche Roosevelt”, gli rammentò con discrezione… Ma per la prima volta, questa volta, Andreotti non ci sarà . Se avesse potuto votare, fra qualche settimana, avrebbe eletto il suo dodicesimo presidente. L’unico politico vivente insieme ad Emilio Colombo ad essere arrivato sin qui dalla Assemblea Costituente: Teresa Mattei se n’è andata pochi giorni fa ed era da molto fuori dalla politica, delusa e lontana. Ma Andreotti sta molto male, la sua famiglia non lascia che nessuno lo avvicini.
E’ ancora alle sue ultime parole, tuttavia, che bisogna ricorrere per decifrare il primo degli enigmi che portano al Colle. “Non c’è nessun metodo che garantisca la vittoria: ci sono solo errori da non commettere”. Sorride, a riascoltare queste parole, Paolo Cirino Pomicino: l’ultimo dei democristiani attivi della vecchia scuola, Forlani essendosi da tempo, dopo il pegno pagato ai lavori socialmente utili cui la giustizia l’aveva destinato, chiuso in un riserbo inviolabile. Dice Cirino: “Com’è noto il vuoto in politica non esiste. Nel tempo in cui gli uomini contano più dei partiti le carte le dà il Quirinale, e Napolitano è lì a dimostrarlo. Il nostro tempo, il tempo in cui i partiti scrivevano la storia, è finito. Non esiste più. Alla supremazia della politica si è sostituito il leaderismo proprietario di cui Berlusconi ha il copyright e che tutti, purtroppo, hanno imitato”. Nel tempo dei leader la selezione della classe dirigente avviene in senso cortigiano: ne deriva la mediocrità della classe dirigente. Nessuno ha più la stoffa né la possibilità di indicare il nome di un presidente come fecero millenni fa Fanfani e Dossetti seduti su una panchina dei giardinetti: ah, poi ci sarebbe da decidere il Presidente.
Nessuno dei nuovi — i giovani neoeletti nel Parlamento che scriverà la prossima pagina di storia — ha memoria e a volte neppure nozione dei lunghi e tortuosi processi le cui minute sono custodite dagli anziani funzionari del Colle. Uno di loro, da tempo fuori dai giochi, sorride alla domanda impertinente — il segreto, per favore, il segreto — e dice così: “I presidenti che ho visto eleggere nelle mia lunga vita sono arrivati al Colle per caso, per obbligo, per sbaglio o per dispetto”.
E’ così, è una corsa al buio. E’ come uno slalom di cui non sia indicato il tracciato. Non ci si candida, al Quirinale. Oggi si dice che Romano Prodi sia il nome che Berlusconi teme, che il centrosinistra cova. Ma non si candida, non può farlo e non deve, sarebbe un errore fatale. La via del Colle è lastricata di cadaveri eccellenti e nobilissimi. “E’ una presa in giro molto ben organizzata”, diceva Merzagora che ne fu vittima. Emma Bonino, che il 13 maggio ‘99 quando fu eletto Ciampi prese 15 voti, dice sarcastica che “ci si ritrova eletti per una forma di telepatia collettiva: nessuno pronuncia mai nessun nome ad alta voce a meno che non voglia bruciarlo, poi nella notte — una certa notte — tutti vengono raggiunti nel sonno dall’informazione decisiva e, in trance, votano la stessa persona”.
Non è così, naturalmente, ma è anche così.
Molti, moltissimi anni fa al nome giusto si arrivava per accordi tra i grandi blocchi di potere: i partiti, che allora c’erano. La Dc, il Pci. “Il metodo del Pci — dice Achille Occhetto ricordando gli anni in cui di quel partito era dirigente, poi segretario — era quello di lasciare che i candidati democristiani si elidessero a vicenda, poi individuavamo l’uomo che rompeva il sistema e all’improvviso convergevamo su quello. Così andò con Gronchi, con Saragat, con Scalfaro per quanto sull’elezione di Scalfaro abbia giocato l’imprevisto, che sempre è in agguato. Lì ci fu la strage di Capaci”.
Che si elidessero a vicenda. I verbi che portano al Quirinale sono tutti indicatori di sottrazione: si diventa capo dello Stato per reciproco abbattimento, per evitare l’elezione d’altri, per togliere, per non urtare, per evitare. Nel segreto dell’alta politica spiegato ai profani questo è l’arcano: bisogna lavorare molto, sì, serve un kingmaker ma non è detto che l’ambizione vinca sull’ingenuità , il calcolo sull’errore. Anzi. L’astuzia non paga. Sono stati eletti sempre, quasi sempre presidenti candidati all’ultimo da chi li aveva bocciati prima, accettati in estrema battuta da chi aveva finto al principio di proporli.
Dice Gennaro Acquaviva, che ai tempi di Craxi è stato l’uomo di collegamento col Vaticano, che “oggi gli interessi hanno preso il posto dei partiti”.
Vediamoli dunque questi “interessi”. Quelli che tradizionalmente hanno orientato la scelta sono la Chiesa, l’America, una volta la Russia, i grandi poteri economici internazionali, le banche. Per questo, dice Cirino Pomicino, “Amato e Prodi sono oggi sulla carta e ai nastri di partenza i candidati forti”. Perché a questo bisogna non dispiacere, e in quest’ordine: le grandi banche d’affari e poi l’America ivi compresa la postazione mediterranea d’Israele, infine la Chiesa. “Quando vedo l’interesse dell’ambasciata americana per i Cinquestelle, quando vedo che vanno a rapporto e rispondono penso: quando mamma chiama picciotto risponde”. L’euro debole, il dollaro forte: questo l’interesse Usa oggi, dice il vecchio notabile dc, già consigliere di Berlusconi. E tuttavia non basta questo. Il quadro è mutato e l’imprevisto in agguato. La figura del Presidente della Repubblica, dal principio degli anni Novanta in poi, ha cambiato profilo. Non basta che garantisca le “agenzie esterne”, non basta che sia gradito ai santi protettori d’oltreoceano e d’Oltretevere. Deve anche rispondere a una formula — oggi si potrebbe dire laico, condiviso, centrista, di garanzia — che parli allo scenario interno. Deve essere nuovo, dice qualcuno con buoni argomenti, perché nuova è la stagione. Dovrebbe essere donna, dice qualcun altro, è maturo il tempo: ad Amato, che per primo auspicò una donna alla vigilia dell’elezione di Ciampi, toccò precisare, viste le reazioni: “Ho detto una donna, non un coleottero”. Chissà se il nuovo papa Francesco potrebbe essere per Emma Bonino, eterna candidata, meno ostile di quanto non lo siano stati i suoi predecessori. “Certo se mi chiamassero non direi che ho da coltivare tulipani — dice lei stessa — ma credo che non accadrà : tra i mille elettori tende a prevalere lo spirito di conservazione”. Sì, tende a prevalere. Disse Giorgio Amendola, poco prima dell’elezione di Pertini, che i candidati — Nenni, La Malfa, Pertini stesso — “parevano una riedizione del Cln, il comitato di liberazione nazionale”. I candidati di oggi — Prodi, Amato, Marini, D’Alema e numerose altre declinazioni di una stagione politica estinta — sembrano una riedizione del mondo di allora. Ma dei vecchi non è rimasto più nessuno, tra i kingmaker sono al lavoro in questi giorni di Pasqua Letta Gianni per il centrodestra, Letta Enrico suo nipote per il centrosinistra: insieme agli auguri si saranno scambiati certo qualche opinione. Il nuovo ambasciatore americano ha ricevuto i Cinque stelle e papa Francesco viene dalla fine del mondo, ha molto altro a cui pensare. Mai come questa volta la posta più alta è stata così incerta. Mai le forze in campo così deboli e variabili, mai il segreto così ben custodito.
(1-continua)
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