by Sergio Segio | 17 Aprile 2013 7:58
PECHINO — Per la prima volta dalla fondazione, cala la popolazione di Pechino e delle più importanti metropoli della Cina. La “grande fuga” è uno shock sia per le autorità che per i cinesi, costretti all’urbanizzazione di massa per aumentare i consumi e sostenere la crescita della seconda economia del mondo. In un anno la capitale ha perso un milione di abitanti, ma anche i residenti di Shanghai, Shenzhen e della stessa Hong Kong si rifugiano nelle città più piccole, che in Asia vengono chiamate «di seconda fascia». Chi può, nuovi ricchi e stranieri attratti nelle capitali dello sviluppo dagli stipendi delle multinazionali, ripara all’estero.
Per il partito comunista, che sulla trasformazione del Paese da rurale a urbano si gioca tutto, suona l’allarme. Smog, traffico, insicurezza alimentare, prezzi alle stelle, lavoro precario, welfare non garantito, spazi ricreativi assenti e censura di Internet interrompono la corsa verso le città -simbolo del “sogno cinese” rilanciato dal neo-leader Xi Jinping. Dopo Mao non era mai accaduto che il concetto di “qualità della vita”, tra i cinesi, prevalesse sulla sete di affrancamento dalla povertà , sulla voglia di carriera, centri commerciali e opportunità migliori per i figli. Così, mentre il premier Li Keqiang promette che entro l’estate presenterà un piano per «prevenire la grande malattia delle megalopoli», cresce il numero dei migranti che ritornano nei villaggi di origine e i media di Stato intimano al governo di «fare qualcosa per il benessere di una massa da 600 milioni di individui».
Sotto accusa, la velocità e il caos della “metropolizzazione nazionale”. Negli anni Ottanta solo 200 milioni di cinesi, su 1,3 miliardi, vivevano in città . Sono triplicati in trent’anni, la popolazione neo-urbana supera ogni anno quella dell’Australia e nel 2030 sfonderà quota un miliardo: un essere umano su otto risiederà in una città della Cina. Le conseguenze si rivelano disastrose. A Pechino la ribattezzata “air-apocalypse” ha portato lo smog a superare di 40 volte i livelli massimi dell’Oms. L’inquinamento è nove volte più alto di quello di Manhattan, il traffico 44 volte più lento che a Mosca e un giorno ogni tre bambini e anziani vengono invitati a non uscire di casa. Un quinto delle città non rispetta i livelli internazionali di sicurezza per polveri sottili e biossido di carbonio e nel 2012 in Cina 1,6 milioni di morti premature sono state causate dalla
drammatica situazione dell’aria. Nella capitale, come a Shanghai, si aggiungono la distruzione dei luoghi storici, l’emergenza idrica e quella alimentare. L’acqua potabile risulta contaminata da scarichi industriali e morie di animali. Il cibo a portata di stipendio medio, spesso si rivela tossico e il Paese è scosso da una nuova epidemia di influenza aviaria.
A Pechino il filetto di manzo costa più che a Londra e le case sono più care che a Tokyo. Lo scorso anno gli investimenti diretti nella capitale sono così calati del 4,2% rispetto al 2012 e uno studio dell’Accademia delle scienze rivela che il 12% di ricchi e classe media progetta di trasferirsi «in regioni dove la vita umana è meno impossibile». Anche l’8% dei 600 mila stranieri residenti nelle città cinesi, nonostante il boom di scuole internazionali, shopping center, ristoranti occidentali, strutture per lo sport e il divertimento, è andato via negli ultimi cinque anni. Prima causa dell’addio, la ricerca di un «luogo più adatto per allevare i figli».
La grande fuga da Pechino, per la potenza che punta al sorpasso economico sugli Usa, tradisce un pericoloso scricchiolio. A migliorare, solo il reddito medio. Tutto il resto, ammette la tivù di Stato, peggiora. «Se il potere non cambia modello — ha scritto il Quotidiano del popolo — il “sogno cinese” non conquisterà il cuore e la mente della gente e rischia di diventare un incubo».
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